Si
potrebbe riassumere così l'insieme di commenti, osservazioni,
domande, che ho sentito in questi giorni per strada e che ho raccolto
durante una conversazione in classe.
Mi
sono resa conto, in mezzo al susseguirsi di reportage e bollettini,
di avere un nervo scoperto, come dice un'amica che ho conosciuto a
Suzhou durante l'espatrio: il “nervo della Cina”. Scatta come una
molla e scatena un mix di insofferenza e solidarietà,
automaticamente, ad ogni banalità, luogo comune o becera fake news:
insofferenza verso i boccaloni che, ad esempio parlano di complotto o
di cinesi da fermare col mitra (sic); solidarietà verso la Cina,
nella persona dei cinesi.
Intendiamoci,
quando sono partita, ormai sette anni fa, ero di un'ignoranza
imbarazzante, inutile nascondersi: quando tentavo di immaginare la
mia vita in Cina, automaticamente mi venivano agli occhi immagini di
piccole barchette su canali, poi un mix improbabile di risaie e donne
con il copricapo di paglia e, in ultimo, il concetto di onore e
famiglia veicolato da Mulan. E Mushu, non dimentichiamo Mushu il
draghetto.
Ero
preoccupata all'idea che non avrei potuto guidare, perdendo la mia
autonomia; passavo notti insonni pensando a come avrebbero reagito i
figli alla nuova scuola, nuova città, nuova vita; mi dispiaceva
lasciare il lavoro e i familiari. In breve: 'na tragedia.
Come
è andata non lo racconto qui -ne ho scritto altrove - ma credo si
possa intuire.
Faccio
alcune considerazioni; anzi, porto alcune perplessità, riguardo ad
alcune perle di questi giorni , a partire da quello che ho visto io e
ho potuto vivere là.
"Prof., ma per forza si prendono il coronavirus, se lo vanno a cercare con tutti quegli animali che mangiano. Anche vivi!”
Certo
che i cinesi mangiano un sacco di animali, esattamente come noi
italiani; anzi, noi mangiamo i conigli, cosa per cui i cinesi
inorridiscono. Del resto, in Cina, mangiano le tartarughe, cosa che
fa inorridire noi. Se poi voliamo in altri paesi, direi che la
varietà di esseri viventi che l'homo sapiens è in grado di
ingurgitare sia estremamente varia.
Detto
questo, però, c'è una pratica, in Cina, cui noi non siamo abituati:
i mercati degli animali. Dove si acquistano sia i pesci rossi da
mettere in vasca, sia gli animali di cui cibarsi; nei supermercati,
poi, è normale che il reparto pesce sia costituito di vasche piene di
specie vive. Tu vai, scegli, metti in borsa con un po' di acqua, poi
uccidi il tuo pesce a casa. Ci sono anche ristoranti che funzionano
così: la prima volta che noi, ignoranti, abbiamo ordinato pesce, ci
siamo visti avvicinare un cameriere che ce ne ha mostrato uno, dentro
un sacchetto, su cui c'era lo stesso numero del nostro tavolo: dovevamo
osservarlo e dire se fosse di nostro gradimento, dopodichè
l'avrebbero cucinato.
Dopo
aver fatto un giro in un paio di questi mercati, avere visto le
condizioni in cui vengono tenuti gli animali, la promiscuità, la
pulizia (e dopo aver vissuto, nel 2014, l'influenza aviaria in Cina)
non mi stupisco che abbiano pensato di chiudere il mercato del pesce
e gli altri mercati, anche se non è ancora certo il punto di origine
del virus.
“La
mamma della mia amica non vuole che andiamo al ristorante cinese a
mangiare il sushi”.
E
ha ragione: sarebbe come andare in una trattoria, che si fregia di
servirti cucina emiliana, per mangiare le orecchiette con le cime di
rapa. Son due cose che non c'entrano l'una con l'altra.
Scherzi
a parte, innanzitutto gli alimenti vengono acquistati qui, come
farebbero a contaminarsi con coronavirus? Secondo punto: il cibo
crudo, pesce, uova, carne, è sempre e comunque rischioso. Su questo
punto ammetto di essere fanatica e fissata, ma io, irrazionalmente,
non mi fido nemmeno del tiramisù, sapendo che non è cotto.
Del
sushi taccio; io non mangio neanche la tartare, o la battuta
piemontese. Svengo al solo pensiero.
Non
ho bisogno del coronavirus per alimentare le mie paranoie.
“Pensa,
fanno le mascherine proprio a Wuhan, ha detto il telegiornale”
(questa l'ho sentita anch'io al tg e, dopo poche ore, queste parole
mi sono arrivate all'orecchio mentre aspettavo all'uscita di scuola).
Devo
ancora decidere quale esattamente sia il problema; innanzittutto,
dato che Wuhan è stata praticamente chiusa, meglio che abbiano una
fabbrica di mascherine, dato che devono servire per una popolazione
di circa 11 milioni di abitanti. In secondo luogo, ho i miei dubbi
che un'unica fabbrica di mascherine riesca a rifornire
l'intero mercato mondiale, Italia in primis. A onor del vero, però,
non ho potuto fare ricerche sul campo, per cui le mie perplessità
sono illazioni.
Un'affermazione
certa, senza timore di essere smentita, ma sicuramente confermata da
chi, non dico in Cina, ma abbia viaggiato anche in altri Paesi
orientali (Giappone, Corea del Sud...) è questa: utilizzare le
mascherine, sia contro lo smog (lo fanno ciclisti, motociclisti, ma
anche pedoni) sia quando si ha il rafreddore o altre malattie da
raffreddamento, è la norma.
I
ragazzi vano a scuola con la mascherina, se sono raffeddati; sulla
metropolitana, bambini, manager, ragazzi... se serve indossano la
mascherina, per educazione e cura verso gli altri. Qui in Italia,
anche in classe, quando lo racconto, mi sento dire che sono
esagerati.
Per
noi è normale starnutire nel fazzoletto; ho scoperto che questo, per
un cinese, è orribile. Non capiscono il nostro uso poco igienico, di
maneggiare, letteralmente, con le mani, muco e oggetti che lo
contengano. Passi, poi, che si getti subito il fazzoletto – cosa
comunque consigliata anche dalle recenti norme anti-contagio – ma
che lo si ripieghi, se di stoffa, e lo si riutilizzi, suscita lo
stesso ribrezzo che sperimentavo io, le prime volte, quando per
strada sentivo ruttare senza filtri. Anche ciò che è riprovevole è
relativo. Basta uscire dai soliti confini.
(Nota
a margine: vivevo in una città di quasi dieci milioni di abitanti,
in cui anche i centri commerciali avevano dispenser di liquido
disinfettante per le mani - oltre stazioni, ospedali, scuole etc..., e
mai una volta che io li abbia trovati vuoti. Sono anni che frequento
un certo Ospedale della nostra provincia e devo ancora riuscire a
trovare un dispenser pieno. Sarò stata sfortunata e sicuramente i cinesi saranno esagerati.)
"Hanno detto che è un complotto per danneggiare economicamente la Cina, per fermare la sua crescita”.
Sarà;
eppure quando il tg ha annunciato che IKEA ha chiuso tutte le sedi
cinesi dei suoi negozi, credo che per prima ci abbia rimesso lei. Non
credo che abbiamo pienamente idea di che cosa voglia dire fermare le
fabbriche per dieci giorni e passa.
Riusciamo
a immaginare che, dietro la notizia, ci sono persone come me, con
famiglia, figli, stipendio da prendere, vita quotidiana da
organizzare?
E qui l'ultima mia perplessità.
“Ma
tutti questi cinesi che viaggiano e arrivano col Capodanno...”
(puntini di sospensione che lasciavano intuire invasione imminente da
oltre-Muraglia)
Serve
una premessa. In Cina ci sono due periodi di festa che possiamo
definire “comandati”: uno, in coincidenza con i festeggiamenti
per la nascita della Repubblica Popolare nel 1949, quindi primi di
Ottobre; l'altro in coincidenza con il Capodanno lunare, quindi tra
fine Gennaio e inizi di Febbraio, ogni anno varia leggermente.
Si
lavora e si va a scuola pressochè tutto l'anno, ma in questi due
periodi, tutto si ferma. Attenzione, però: solo dopo aver fatto i
debiti recuperi. In pratica nella settimana precedente le ferie – e
se serve anche quella dopo - si lavora il sabato e la domenica. E si
va a scuola. Non credo che noi italiani possiamo davvero capirlo:
nelle mie classi, io ho sempre una quota di persone che parte uno o
due giorni prima dell'inizio ufficiale delle ferie. Inclusi alcuni
colleghi.
E
così credo funzioni anche in altri posti di lavoro. Siamo onesti e
facciamoci caso: chi deve raggiungere i propri familiari in altre
città d'Italia, se può, non parte il 23 dicembre, o il 24.
Comprensibile. In Cina non si fa, non si può: i giorni di chiusura
si recuperano, sia prima sia dopo. Le partenze, in prossimità di
queste feste, sono letteralmente a fiumi. Sono momenti in cui certo i
cinesi viaggiano, ma ancora, in buona parte, lo fanno internamente; gli occidentali, quelli
sì, ne approfittano per tornare in patria, o fare le ferie in altre
località dell'Asia.
Quando
ho sentito che sono stati bloccati gli autobus a lunga percorrenza,
le metro, i traghetti, sono stati introdotti rigidi controlli –
seguiti poi da sospensione voli – e quarantene, proprio nel periodo
delle festività, ho pensato sia a quanto deve essere costato al
governo ammettere un'emergenza – molti insinuano che la Cina non
sia del tutto trasparente sulla realtà dei fatti – sia quanto deve
essere costato – e costare tutt'ora – ai semplici cittadini come
noi, sottostare all'isolamento, alla chiusura delle scuole, alle
limitazioni alla mobilità.
Proviamo
a trasportare la medesima situazione qui: 23 dicembre, ore 18 locali,
valigia pronta per prendere il volo/treno/bus che vi porterà a casa
per le vacanze di Natale, dopo quattro mesi che siete lontani. Puf.
Non si parte più. Non si gira più. Non si va a teatro. Non si va al
cinema. Ikea chiusa. Starbucks chiuso. Mercato chiuso. Metropolitana
chiusa. Niente palestra.
Non
ho studiato abbastanza cinese da immaginare gli improperi che, molto
onorevolmente sono sicura vengano indirizzati alla sorte, al
coronavirus, ai pipistrelli o a chi per essi; però le parolacce
italiane che volerebbero in un caso analogo, quelle sì, riesco ad
immaginarmele. (Vedi caso dei turisti che per due giorni sono stati
trattenuti sulla nave da crociera, per dar tempo di avere gli esiti
dei test su due presunti casi di influenza, con corollario di
proteste, esasperazioni e polemiche per la limitazione alle loro
libertà. CVD).