mercoledì 30 dicembre 2020

Nessuno tocchi Telemaco

 


Posso dire tranquillamente di avere letto questo libro (Il complesso di Telemaco, Massimo Recalcati, Feltrinelli Editore, 2013) sicura di trovarci storture e una lettura superficiale dell'Odissea.
Tutto è nato dal fatto, capisco ora, che leggendo i giornali – e le vicende politiche di questi anni – ho sempre sentito associato il nome di Telemaco, nella lettura data da Recalcati, a un personaggio che, a mio vedere non ha nulla a che fare con il figlio di Ulisse. E non agisce e non ha gli ideali del figlio che attende che la sua “eredità” ritorni dal mare, per farla propria e portarla avanti. Quindi avevo incolpato di questo travisamento, per riflesso, l'autore del saggio.

Questo è il primo libro di Massimo Recalcati che leggo e, dopo averlo sentito parlare in televisione, capisco perchè sia un autore molto amato. Psicanalista lacaniano (nessuna sapienza, basta un giro veloce in rete per acculturarsi su ciò) ha un rapporto speciale e musicale con le parole, cura e rimedio, creatrici di senso e di vita.
“... essendo l'umano un essere di linguaggio, essendo, la sua casa, la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola... la vita si umanizza e si differenzia da quella animale attraverso la sua esposizione al linguaggio e all'atto di parola” (pag. 30).
Gli piacciono, le parole, e gli piace ascoltarsi mentre le pronuncia, le scrive, esplorando assonanze e consonanze che aiutano a ribadire i concetti. Un'idea – sia in televisione sia sulla pagina - viene espressa, variata, ripresa, in un lento moto avvolgente.

L'effetto seduttivo è innegabile – e in televisione è percepibile in modo evidente, assecondato anche dalla platea, sempre stranamente (?) a predominanza femminile.
Ma torniamo a Telemaco: nel libro diventa l'immagine di un nuovo rapporto tra padri e figli, là dove la figura del padre, insegna Lacan (e Recalcati, of course), sta evaporando, lasciando una
generazione di figli che attendono il ritorno di colui che porterà la giusta legge, facendo di Telemaco l'erede per eccellenza.
A questi manca il padre, ma Ulisse è sempre presente nei suoi pensieri, il ricordo è vivo, nonostante sia partito quando il figlio era piccolissimo. La madre – col suo comportamento e il suo “parlare” il padre – mantiene vivo il ricordo di Ulisse e, con le sue parole, ne fa un punto di riferimento: lontano, assente, forse morto, ma potente. Al punto che Telemaco, prima di rassegnarsi, parte alla sua ricerca; o almeno alla ricerca di notizie certe, che permettano, poi, di farsi erede nel giusto modo.
Non so bene se, in ambito psicanalitico, questa teoria sia stata accettata, cioè considerata valida secondo i canoni della disciplina; io, da prof. di lettere, che ero convinta di leggere una maldestra strumentalizazione di un'opera, magari letta solo parzialmente, devo riconoscere che tutto tiene. I vari punti della teoria poggiano su una lettura amorevole e rispettosa dell'Odissea.

E per un autore che si autocita una pagina sì e una no, devo dire che è ammirevole.
Ne consegue che il noto politico che, a suo tempo, si inserì d'ufficio nella generazione-Telemaco, probabilmente reduce non tanto dallo studio dell'Odissea, quanto di questo testo di Recalcati, non ha letto attentamente il libro.
Io ho il sospetto che sia stato preso solo ciò che interessava; per non dire – cosa che sospetto ancora più fortemente – il libro non è stato letto per intero. Se no si sarebbe arrivati a questo passo:

“Telemaco esige giustizia “adesso”!... Non invoca una Legge astratta, ma una giustizia che protegga la sua casa... E' alla ricerca del senso della legge della Parola. I Proci hanno calpestato questa Legge.
Nell'Odissea il mondo dell'adolescente è rappresentato, al tempo stesso, da Telemaco e dai Proci. Questi ultimi sono, infatti, coetanei di Telemaco, giovani principi come lo è lui stesso. Ma la loro giovinezza calpesta la legge del padre, umilia la sua gente, dichiara Ulisse morto, togliendogli in questo modo ogni forma di rispetto. La rottamazione del padre procede violentemente...

I Proci... calpestano la Legge non scritta dell'ospitalità che nel mondo greco è l'incarnazione più profonda della Legge della parola. Essi vogliono che la regina sposi uno di loro per prendere il posto di Ulisse e impedire che Telemaco erediti il regno del padre. Non riconoscono la Legge che limita il godimento.” (pag. 115-116).
L'autore non ha preso le distanze dalla appropriazione (a mio avviso indebita), perlomeno non mi risulta, anzi. Diversamente avrebbe perlomeno abbozzato un “Complesso di Antinoo”.


domenica 13 dicembre 2020

Viaggio a occhi chiusi

Quando giro l'angolo della mia strada, negli occhi si fondono sempre due immagini: la strada di oggi e quella in cui sono cresciuta, con la folla dei volti di chi ci ha abitato e adesso non c'è più.

Nella mia memoria portoni e gradini hanno ancora tutti i loro abitanti; mi tornano in mente come piccole instantanee, fatte di chiacchiere e impressioni di bambina, raccolte nei pomeriggi passati a giocare con le altre bambine del Palesi.

Il gioco preferito del nostro piccolo gruppo era lanciarsi con la bicicletta lungo la discesa di asfalto – allora sembrava così pericolosa! - che dall'ultima arcata del porticato del castello scendeva sulla piazza. In velocità dovevamo evitare le auto parcheggiate al centro dello spiazzo – ho imparato, con prudenza, a parcheggiare lì, appena presa la patente.

Con le nostre bici e l'ordine di non allontanarci, giravamo lungo un percorso circolare.

Prima nella piazzetta, ma lontano dalla porta del “Club”, posto misterioso, a metà tra un covo di gangster e una bettola da pirati. Mia nonna è sempre rimasta nel vago sul perchè fosse da evitare e su cosa ci si facesse. E io mi feci l'idea che, oltre a bere, ci si giocasse d'azzardo e si tenessero loschi traffici. Ho solo una fugace immagine, che non so se vera o costruita dalla mia immaginazione: la porta si apre mentre ne esce un signore e io intravedo un bancone, silouhette di uomini in mezzo a luce fioca e una nuvola di fumo in cui tutto si confonde.

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Dalla piazzetta, poi, ci fiondavamo verso via Castelvecchio, schivavamo chi giocava a pallone: si doveva stare attenti a non lanciarlo nel giardino della villa Leoni. Che poi i Leoni non c'erano più – se ne stavano a Bologna, mi raccontavano – e io immaginavo il bellissimo palazzo di città in cui abitavano: pavimenti di marmo a losanghe bianche e nere, voltoni e alti soffitti. Vignola, diventata un paesino lontano che avevano dimenticato; così ci pensava l'Armida, la custode, a rilanciarti la palla. E intanto, con il naso tra le grate del cancello, aspettando, noi spiavamo il fantastico giardino con le palme, che d'inverno venivano fasciate di paglia.

Girando attorno alle case, dovevamo stare attente a non passare in mezzo alle nonne sedute a chiacchierare sulle loro seggiole impagliate, alcune di queste così vecchie, che erano state accorciate, perchè le “gambe” erano ormai smangiate dai tarli e allora si era tolta la parte ormai corrosa.

Ricordo ancora la Rina, le sue gambe magrissime sotto le sottane a fiorellini.

D'inverno partiva sul suo motorino verde acqua, mettendo fogli di giornale sotto il cappotto, dopo essersi legata il fazzoletto stretto sotto il mento.

D'estate aveva l'abitudine di farsi vento col grembiule, muovendolo su e giù: ogni tanto afferrava – per sbaglio? - anche il bordo della gonna, con grande disappunto di mia nonna.

Poi c'era la Giovanna, che sempre aveva qualcosa di più grande, più bello, più... la figlia più bella, la nipote più brava, la casa più bella... E solo col tempo ho assemblato i mugugni a mezza bocca delle altre, e ricostruito una storia fatta di una figlia rimasta sola, di un matrimonio mancato, una gravidanza indesiderata e un padre scappato quando ormai lo davano tutti per preso.

C'era la Cocca, che tutte tenevano a distanza: senza marito anche lei – e non perchè vedova – donna dal carattere forte e passato chiacchierato – ma ogni tanto mi chiedo se tutte le piccole malignità non fossero invenzioni - non aveva paura di niente, nemmeno di tirare il collo ad una gallina, a mani nude, seduta su uno sgabello in mezzo alla contrada.

Quel giorno noi bambine ci nascondemmo dietro la porta a spiare le sue braccia bianche, decise, i muscoli che si tendevano e l'agonia della povera bestia, che ho sentito nella pancia, come un pugno a ogni stretta.

Dietro l'angolo della contrada, nella casa in fondo alla via chiusa, stava la signorina Isadora, dal nome esotico: sempre elegantissima, i capelli cotonati, insegnava pianoforte. A passettini misurati, la rivedo passare con la borsetta appesa al braccio, i guanti bianchi, gli abiti dalle fantasie optical e lucide scarpe di vernice.

Dirimpetto, la famiglia del colonnello, baffi sale e pepe e cappello ornato di una piuma, salutava sempre educatamente, ma non dava nessuna confidenza.

Non mancavano dispute e rancori nel piccolo mondo della contrada: prima per i gatti. La figlia di Cocca lasciava cibo per i randagi del centro, che avevano imparato dove lei posizionasse piattini e cartocci di cibo. Il fatto che fossero esattamente sotto le finestre della signora L., precisissima e amante dell'ordine e della pulizia, non aiutava la pacifica convivenza.

Col tempo e qualche segnalazione ai vigili, la colonia è stata dispersa, giusto in tempo perchè inziassero le dispute per il parcheggio – abusivo – in zona carico-scarico. Una gara a chi arrivava prima e a chi dovesse spettare il diritto di avere l'auto comoda, sotto le finestre.

Quando giravamo l'angolo per tornare sulla piazza, passavamo davanti alla porta di Clara: aveva capelli rossi, avvitati in fitti ricci; la pelle bianca risaltava in contrasto al rossetto rosso acceso, meticolosamente steso sulle sottilissime labbra. Teneva sempre in braccio il suo barboncino color miele. Indossava abiti attillati, con gonne al ginocchio e non rinunciava alle scarpe col tacco, anche se le sue gambe erano gonfie e malferme.

Clara aveva anche un marito e, a volte, attraverso la “canola”, lo spazio tra le case, che faceva da cassa di risonanza, arrivavano le liti e le urla.

Un giorno, era estate, faceva un gran caldo, sentimmo urla e strepiti e vedemmo Clara, col cagnolino in braccio, uscire dalla porta di casa col viso coperto di sangue. Le donne della contrada fecero in fretta a farci rientrare per poi soccorrerla e aiutarla. Dopo quel giorno, non vedemmo più ne' lei ne' il marito: la casa rimase vuota e mia nonna, e le altre signore, non ci hanno mai voluto raccontare cosa fosse successo davvero.

Noi abbiamo continuato i nostri giri in bicicletta e abbiamo dimenticato di chiedere, fino a oggi, quando vorrei completare i ricordi, ma non è rimasto più nessuno che possa rispondermi.