giovedì 27 dicembre 2018

Il banco dei pegni

Cammino sotto i portici; il buio è sceso presto, complice anche la sottile nebbiolina. Lo spesso cappotto di panno, con il collo di pelliccia, fatica a tenere lontana l'umidità, che serpeggia tenace fino al midollo. Il bastone – oggi ho scelto il mio preferito, con un semplice pomo in legno intagliato, a rappresentare il bel muso di un levriero – scandisce il passo, non più elastico come un tempo.

Ho sempre temuto il freddo; ora più che mai, ma ho l'attenuante dell'età.
Mi viene in mente quando, ormai molti anni fa, rabbrividivo nella mia stanzetta da studente universitario, mentre cercavo di concentrarmi sui testi di legge, scaldandomi al lume della mia determinazione e ambizione.
Inutile ricamarci sopra – mi vien da sorridere, ora – non sono mai stato fisicamente forte e spendevo patrimoni in carbone, per sconfiggere il clima della città di****, in cui i miei mi stavano facendo studiare a prezzo di grandi sacrifici.
Ero abile a scrivere, però; le mie lettere a casa erano capolavori di rassicurazioni e aneddoti divertenti sui professori e i compagni di corso; riuscivo a tacere dei pasti saltati e dei debiti che stavo contraendo. E andavo avanti.

Era da tanto che non andavo col pensiero a quegli anni; ho cercato di dimenticarli, man mano che la mia professione mi aiutava a risalire i gradini della società; man mano che la mia fortuna mi apriva, una dopo l'altra, le porte dei salotti che, all'inizio, sbirciavo dalla strada – luci perlate dietro i pesanti tendaggi, guizzi di silohouette danzanti fino alle ore più tarde...
Più mi addentravo nei segreti di famiglie ricche da generazioni, più relegavo il mio passato in un luogo remoto della memoria; solo le occasionali visite ai miei – ora ero io a mantenerli, senza sacrifici - mi tenevano ancora debolmente legato al Whilelm che aveva faticato e penato per rendere orgogliosi i suoi genitori. Il più del tempo, per non vergognarmi di loro, li cancellavo dai miei pensieri.


Mentre cammino, controllo le insegne; ormai mi sono inoltrato nelle strette vie dei rigattieri e antiquari della città. Dovrei essere quasi arrivato.
Passo davanti ad un negozio, polveroso e buio. L'insegna sbiadita mi sembra familiare.
“Tauschmann – Banco dei pegni”.
Avevo smesso di frequentare questo negozio quando, finalmente, avevo cominciato a guadagnare abbastanza regolarmente; non ero ancora il più affermato e fidato notaio della città, ma un promettente giovane assistente, con una modesta rendita. Non avevo, tuttavia, più bisogno di impegnare i miei pochi oggetti di valore; anzi, avevo cominciato a riscattarli. Ricordo ora che l'ultimo rimasto era il mio orologio da tasca, regalo dei miei prima della partenza per l'università.
E ricordo il giorno in cui andai per riprenderlo: il sollievo, la soddisfazione di chiudere un capitolo.


Come sempre, entrando, rimasi incantato dalla moltitudine di oggetti che il signor Tauschmann rilevava, vendendo quelli che i legittimi proprietari non potevano più reclamare. Mi sembrava sempre di entrare in un luogo popolato di fantasmi, ombre silenziose legate ad un bracciale, un bel fucile da caccia, o un prezioso merletto; ogni oggetto – immaginavo – aveva una sua storia, diversa, eppure simile nella trama: fatta di speranze tradite, di illusioni che erano andate lentamente alla deriva, fino a toccare l'ultima sponda del banco dei pegni. L'eco di nuove speranze – o brevi e ingenui sogni, chi lo sa- vibrava nel pulviscolo sospeso su un cuscino o dentro una piccola teca di vetro, lasciati vuoti.
Un apparecchio particolare catturò la mia attenzione; di certo era lì da molto, ma non so perchè non ci avessi mai fatto caso. A prima vista un orologio da tavolo, di ottima fattura, con la cassa cilindrica abilmente incisa ad arabeschi e strani caratteri, come i geroglifici, che tanto mi affascinavano al museo.
Mi avvicinai, per studiarla meglio; quello che avevo scambiato per un orologio, aveva sì il quadrante, ma senza ore o lancette. Al loro posto, in corrispondenza dei quarti d'ora, quattro etichette, che recitavano: “Nulla” “Più del dovuto” “Quanto basta” “Senza prezzo”; al di sotto una sorta di tastiera: numeri e lettere. Sul fianco una leva.
Mentre fissavo quello strano oggetto, cercando di capirne l'utilizzo e il funzionamento, arrivò sollecito il signor Tauschmann; aveva già in mano il mio orologio, pronto a restituirmelo.
“Vedo che ha notato il mio Contatore. E' un macchinario, lasciato da un abilissimo contabile, che sosteneva, con esso, di riuscire a dare un valore ad ogni cosa, tangibile e no. Non ha voluto niente in cambio, solo la promessa che l'avrei tenuto esposto senza mai venderlo. Posso usarlo, però, quando qualcuno dubita che gli offra una cifra congrua e dimostrare, così, la mia onestà. E finora mi ha servito bene”.
Io scoppiai a ridere, ma in realtà mi affascinava questo concetto, perchè conti e somme erano il mio modo di essere; una tensione continua a valutare, soppesare, scegliere e agire, per mettere a frutto ogni mio sforzo, ogni mia risorsa, proteso in modo spasmodico alla realizzazione dei miei progetti.
Non mi conoscevo così bene, allora; questa descrizione è frutto della consapevolezza, venuta col tempo e la solitudine; allora, nel fragore della giovinezza e dell'ambizione risposi che sicuramente era un genio di contabile e che un macchinario così mi avrebbe fatto davvero comodo; anzi, all'improvviso decisi - sentii - di volerlo. Non credevo che funzionasse davvero, eppure non volevo andarmene dalla bottega senza quell'oggetto.
Il signor Tauschmann mi ribadì che non era in vendita, parlando confusamente di abilità, illusioni e malasorte, ma io insitetti così tanto, sfoderando tutte le mie doti oratorie, che alla fine – non senza aver ceduto anche il mio orologio – uscii dal negozio con il Contatore. Ricordo che mentre pagavo, sentivo lo sguardo del signor Tauschmann fisso su di me: una strana concentrazione lo rendeva silenzioso. Cercai di rompere quel silenzio con una battuta:
“Di certo i miei non l'avrebbero comperato, questo orologio, se avessero saputo la sua fine!”.
“Di certo molta vita sarebbe andata sprecata” fu l'unica, assurda, risposta che ricevetti.
La soddisfazione di averla spuntata sul rigattiere cancellò ben presto quelle impressioni; portai a casa il Contatore e lo misi nel mio piccolo studio.
Confesso che, per molti mesi, lo lasciai a ricoprirsi di polvere; non provai nemmeno a vedere se funzionasse; semplicemente mi accontentavo di ammirarne i decori e la particolare forma, raccontando aneddoti inventati di sana pianta agli amici che me ne chiedevano la natura e la provenienza.

I mesi passarono e mi trovai alle prese con un'esperienza che non avevo preventivato: mi innamorai. La frequentazione di cene, teatro e ricevimenti mi aveva già da tempo permesso di avvicinarmi alla compagnia femminile; la goffaggine che mi aveva afflitto da studente, consapevole dei miei scarsi mezzi, a trent'anni aveva ceduto il passo ad una guardinga riservatezza. Sapevo conversare e fare amabili e galanti complimenti, senza mai creare aspettative matrimoniali.
Tutto questo finì quando incontrai Helena Wunsch, figlia di un ricco banchiere che mi aveva affidato alcune pratiche spinose. Questo stesso aggettivo si poteva applicare alla sua unica figlia , dal carattere deciso e poco malleabile; il suo aspetto non suggeriva immediatamente romantici pensieri, dal momento che questa giovane donna, alta, sottile, ma non fragile, si muoveva decisa, conservando in salotto lo stesso passo energico con cui percorreva i sentieri tra i boschi fuori città, tenendo il ritmo dei compagni di escursione. Creava distanza e intimoriva con la espressione sincera delle sue idee e dava l'impressione di non curarsi del fatto che i giovani uomini che il padre continuava a mettere sul suo cammino, nel breve volgere di una stagione si dileguavano, senza avanzare nessuna proposta.
Quando mi fu presentata la prima volta, la sua stretta di mano, calda, ma non arrendevole, mi colpì; passammo una piacevole serata conversando e ottenni il permesso di farle visita anche in seguito.
Sinceramente non so dire, oggi, nel dettaglio, cosa io abbia visto di diverso e così seducente in lei; ricordo però, perfettamente, il senso di totale appartenenza, il dialogo continuo che, fossi a casa o al lavoro, continuavo nella mia mente fino all'incontro successivo. Il tempo aveva preso uno scorrere diverso: c'era il tempo con Helena e, lontano da lei, una palude grigia in cui mi muovevo nella semplice attesa di rivederla. La sua apparente freddezza, avevo scoperto essere la naturale riservatezza di una donna dal ricco patrimonio che, prima di concedere fiducia, voleva accertarsi delle intenzioni di chi le stava di fronte. Negli anni aveva perfezionato un instinto sicuro, in grado di individuare i cacciatori di dote; e aveva escogitato un elegante metodo per scoraggiarli in partenza. Come un'impervia montagna deve essere affrontata da scalatori decisi ed esperti, che desiderano arrivare in vetta, così chi si accostava ad Helena, e desiderava conoscerla veramente, non poteva farlo in modo superficiale, né lasciare al primo ostacolo. E io ero abituato agli ostacoli e alla tenacia che richiedono.


Una sera di maggio, seduto nel mio studio, ascoltavo i rumori della strada che salivano attraverso le finestre aperte; guardavo le tende muoversi lentamente e i miei pensieri oscillavano allo stesso ritmo: sì, no, è tempo, è troppo presto...

Cercavo di trovare il coraggio per presentare, l'indomani, la mia proposta di matrimonio. L'esaltazione si alternava al dubbio di incontrare ostacoli inaspettati; mi cadde l'occhio sul Contatore e, un po' per scherzo e un po' per disperazione – avrei voluto che qualcuno mi consigliasse o mi rassicurasse – scrissi il nome di Helena sulla tastiera, abbassai la leva e rimasi a guardare i meccanismi che si spostavano tra ronzii e ticchettii.
Sotto i miei occhi le lancette si mossero e si posizionarono decise sul quadrante “Più del dovuto”.
Cosa aveva detto il signor Tauschmann? Che la macchina era in grado di attribuire l'esatto valore di un oggetto, quindi Helena valeva “Più del dovuto”? E cosa significava?
Infastidito dal mio momento di debolezza e da questo enigma, cui mio malgrado avrei voluto dare soluzione, andai a dormire e, il giorno dopo, mi presentai a casa Wunsch.
Ero così certo di non essere un partito disprezzabile, che le domande minuziose del padre di Helena sulla mia situazione finanziaria e la freddezza, in generale, con cui mi accolse, mi innervosirono. Alla fine ebbi la sua benedizione, ma con una serie di richieste e imposizioni riguardo ai tempi e ai modi del fidanzamento, che la gioia ne fu offuscata.
Quando parlai ad Helena, la mia insofferenza aumentò; ritrosia e lealtà la portarono a difendere il padre, chiedendomi di pazientare e comprenderlo. Il nostro fidanzamento, dunque, iniziò e con esso il preparativi per le nozze.


“Più del dovuto”.
Continuavano, queste parole, ad echeggiarmi in testa e , ogni volta che un piccolo screzio, o una richiesta del signor Wunsch mi urtavano, mi tornavano in mente, facendomi dubitare che valesse la pena sacrificare la tranquilla routine da scapolo, per cosa? Per questa passione non ancora vissuta pienamente e che stava già agonizzando nelle piccole meschinità pratiche di dote, mobilio, servitù, rendita...?
Nel frattempo il lavoro si stava facendo sempre più impegnativo e il mio stato d'animo, teso e inquieto, mi aveva fatto abbandonare il tranquillo distacco per cui ero diventato famoso. Anzi, qualche risposta pungente mi aveva costretto a scuse e salamelecchi, per evitare che un esigente conte e un attempato finanziere mi dessero il benservito.
Proprio al termine di un estenuante incontro con uno dei due signori, mi recai ad una serata a casa della mia fidanzata; cercai di recuperare l'autocontrollo, immaginando il colore delle sue guance, tinte d'albicocca alla luce delle candele; il tepore della sua mano, che si sarebbe percepito attraverso il guanto, mentre avremmo conversato sul canapè, in salotto, davanti al camino. Più di tutto mi animava la consapevolezza che, presto, prestissimo – appena un mese - ci saremmo sposati.
Quando venni introdotto in casa, sentii un'atmosfera tesa e sofferente; gli altri ospiti non erano ancora arrivati e fui fatto accomodare nella sala da fumo, dove già vi era il padrone di casa. Il signor Wunsch – cosa insolita visto l'orario - contemplava in silenzio le sfumature d'ambra di un liquore nel bicchiere.
Senza alzare lo sguardo, mi comunicò in modo asciutto che il nostro matrimonio avrebbe dovuto subire un ritardo di tre mesi, poiché egli era in partenza: era entrato in parteci pazione nella gestione di una miniera nella regione di *** ed era necessaria la supervisione nelle prima fasi di avvio dell'attività. Solo tre mesi, mi disse, poi al suo rientro, con il patrimonio ancora più saldo, avrebbe dato in moglie la figlia, al cui matrimonio non poteva mancare. Avrei certamente capito, concluse.

In realtà non capii; mi rifiutai di capire. Stordito, offeso e incredulo parlai con Helena, convinto di trovarla altrettanto incredula e desiderosa di opporsi a questa richiesta. Mi sbagliavo. E quando le posi un ultimatum – avevamo aspettato “Più del dovuto”. Avevamo concesso “Più del dovuto”, le ripetevo adirato – lei non esitò e mi congedò.
Nello stordimento dei primi giorni, provai anche una sottile soddisfazione. Se, alla fine, non era stata disposta a scegliere me, allora, forse, avevo fatto bene; perchè insistere e attendere chi, dopotutto, non mi aveva dato fiducia? Forse la macchina davvero era in grado di valutare l'esatto valore anche di una cosa così effimera e inafferrabile come un amore. Certo che ne era in grado, mi dissi; quei mesi in cui avevo cercato in tutti i modi di adeguarmi alle richieste dei Wunsch erano davvero costati
“Più del dovuto” e tagliare i ponti era stata la cosa migliore.
Da quel giorno - e nessuno lo ha mai saputo - mi sono rivolto al Contatore per ogni scelta che dovessi fare; e confesso che molte occasioni le ho lasciate perdere, perchè non ero disposto a rischiare di nuovo “Più del dovuto”.
Mi sono meticolosamente attenuto solo a ciò che veniva classificato con “Nulla”, o “Quanto basta”; il che, nei miei rapporti con gli altri, si è tradotto in una serie di brevi e vuote avventure, in cui non ho mai investito altro che la superficie della mia anima.
Ora, che ho risparmiato fino alla fine, guadagnato fino all'inverosimile, ora che sono circondato di begli oggetti e so sempre esattamente che cosa mi si chiede in cambio di un sorriso o di un po' di calore, sento sempre più spesso un freddo che nasce dal centro delle mie ossa e nessuna pelliccia è in grado di scacciare.

Oggi – è anche il giorno del mio cinquantesimo compleanno – queste sensazioni sono un po' più forti, insistenti. Mi sento stanco e nemmeno il pensiero della cena che mi aspetta nel tepore del club, mi alletta.
In questo stato d'animo uggioso e svogliato, del tutto inaspettatamente, nel pomeriggio – ho rivisto Helena; stava uscendo da un negozio di cappelli. Con lo sguardo abbassato mentre si sistemava i guanti non mi ha visto.
Dalla rottura del nostro fidanzamento avevo tagliato qualsiasi contatto e avevo fatto in modo di non venire a sapere nulla di ciò che le accadeva. Avevo, ovviamente, chiuso anche i rapporti lavorativi col padre.
Non so cosa mi abbia spinto a parlarle; forse la sensazione di essere ormai oltre ogni rimpianto e sicuro delle scelte fatte; lei mi ha salutato gentilmente, con le guance appena arrossate dalla chiara emozione di rivederci dopo tanto tempo e nessuna riconciliazione. Abbiamo camminato per un poco, risalendo lentamente la via; le ho chiesto notizie sue e del padre.
Mi ha riferito che, rientrato dal viaggio dopo i tre mesi stabiliti, si era gravemente ammalato e lei aveva passato tutto il tempo della lunga malattia ad accudirlo. Erano terminate le serate danzanti e, dopo la sua morte, lei non aveva più voluto riprendere la vita mondana. Viveva ancora nella stessa casa, sola. “Ho esitato più del dovuto, quando è stato il momento, con te. Dopo, quando lui se ne è andato, non era possibile tornare indietro. Ed eccomi qui, non c'è molto da aggiungere”. Eccolo, di nuovo, intatto, il suo modo di parlare e dire le cose: decisa, eppure tremante; onesta e senza lusinghe. I suoi occhi mi fissavano, in attesa della mia replica.
Mentre parlava sentivo una strana oppressione al petto e faticavo a tenere regolare il ritmo del respiro; non capivo il perchè di quel malessere e mi imbarazzava non riuscire ad aprire bocca. Non so come io abbia concluso la conversazione e come mi sia congedato. Ho farfugliato poche frasi di circostanza e, vigliaccamente, sono salito sulla prima carrozza di piazza che mi è passata a fianco.
Nel chiuso dell'abitacolo mi sono strofinato gli occhi; pungevano e sui guanti di capretto è rimasto il segno di qualche lacrima. Vecchio imbecille, che un tempo era stato giovane e imbecille.
Troppi pensieri insieme mi si affollavano in testa; respiravo forte, come dopo una corsa: le etichette, il contatore, l'insofferenza, la stupida certezza di essere nel giusto; e poi il signor Tauschmann e le sue frasi sconnesse, la mia tronfia soddisfazione: tutto si è ricomposto e chiarito.
Se anche mi era stato richiesto “più del dovuto”, che importava? La giusta domanda non era mai stata “Quanto vale?” - questo amore, questo affare, questa amicizia, questo... Qualcosa – ma “Quanto sei disposto a pagare?”.
Il tempo dell'attesa e della fatica, forse anche dell'insofferenza e dell'incertezza, capivo ora, facevano parte di un disegno più grande e non avevo avuto la pazienza di portarlo a termine.
In cambio ne avevo avuto una vita pulita, sicura, senza sprechi: una bella stanza vuota, da cui contemplare il vuoto del mio passato.
Io, che mi compiacevo di aver indovinato con una arguta metafora, fatta di vette e passi di montagna, la natura di Helena, avevo fatto la fine di tutti gli sprovveduti che, prima di me, avevano rinunciato: semplicemente avevo camminato un po' più a lungo, rinunciato un po' più tardi.
Avevo scelto un sentiero semplice e piano; solo gli stupidi lo fanno. Solo gli stolti credono ad un cartellino col prezzo e regolano il passo su di esso. E tra tutti, io ero il più misero, perchè per anni avevo vissuto compiacendomi di tutto ciò.


E' stato per placare questo pensare furioso e sconsolato, che sono uscito di nuovo a camminare. Rientrato a casa, dopo l'incontro con Helena, infatti, ho provato a sedermi alla scrivania; ho fumato un sigaro tentando di concentrarmi sui codicilli di un testamento che avrebbe dovuto essere pronto per l'indomani.
Lo sguardo, però, andava continuamente al Contatore, e mi è presa una smania incontenibile.
E ora sono qui, davanti al negozio “Tauschmann – banco dei pegni”; incredibilmente è ancora in attività e, nonostante l'ora tarda, aperto.
Entro nella familiare penombra zeppa di oggetti, ma non guardo nulla: non ho più voglia di fantasticare sulle speranze e le storie degli altri.
Appoggio con un tonfo secco il Contatore sul banco e il rumore fa accorrere dal retrobottega il proprietario. E' solo leggermente più grigio e più curvo, ma non sembra cambiato. Mi guarda interrogativo e quando capisce cosa voglio, scuote la testa; nei suoi occhi un'ombra di sorriso.
Probabilmente lo diverte la mia aria tormentata, l'evidente agitazione.
“Ho cercato di dissuaderla, anni fa, ma non era possibile, vero? L'unico modo era passarci di persona. E adesso ha capito. Lo lasci pure a me. Ovviamente non c'è nulla che possa darle in cambio. Ciò che non ha vissuto non può tornare.”.
Mentre lo ascolto non ho neppure la forza di arrabbiarmi; lo guardo sistemare il Contatore nella stessa teca in cui lo vidi la prima volta. Le parole del signor Tauschmann si mescolano alle frasi di Helena, che non riesco a ricordare.
Eppure sarebbe importante, perchè sono un'eco di qualcosa che ho già sentito.
Lo sguardo si ferma per l'ultima volta sul marchingegno: “Più del dovuto”. Ecco, proprio così aveva detto anche lei.
Per un attimo sono tentato di bloccare il signor Tauschmann, di constringerlo a muovere le leve per me, per un'ultima domanda, un'ultima conferma. Poi mi rendo conto che non ne ho bisogno. Ho tutto quello che mi serve per fare le mie valutazioni, i miei conteggi e tirare le mie somme.
Mi avvio alla porta e mi incammino sotto i portici; il bastone scandisce il passo, lento e sicuro, sulla strada che porta a casa Wunsch.

sabato 22 dicembre 2018

Sogno



Comprare una villa solo perché mi piaceva l’albero che sovrastava i cancelli di ingresso; è questo che ho fatto.
Unica azione d’impulso in una vita altrimenti ordinata, responsabile, razionale.
Quel tronco snello e più volte ricurvo, le foglie verdi che in punta di piedi avvolgevano ogni singolo ramo, per fremere e luccicare contro il cielo azzurro… non so cosa mi prese. Uno strano struggimento; e una visione – sogno o desiderio, chissà… - io seduto all’ombra del loggiato; in lontananza, incorniciate dai rami,  grasse nuvole bianche a ombreggiare i cumuli di fieno lasciati a seccare; un campo giallo di grano; e un bambino, che ascolta la storia da un libro arruffato dalla brezza tiepida…
Così seppi che dovevo comprarla e venire a trascorrervi le mie villeggiature, lontano dalla calura, che d’estate rendeva greve e indisponente la città; il parco era piccolo, ma non mi sfiorò il pensiero che alla mia futura sposa sarebbe mancata la frescura di un fontanazzo, il ristoro dei giochi d’acqua. Ero sicuro che anche lei avrebbe amato quell’albero, e avrebbe trascorso pomeriggi di quiete a ritrarlo con i suoi acquerelli.
Mi ero piegato all’idea del matrimonio, letteralmente, di malavoglia e con lo spirito con cui, nella mia carriera di ambasciatore della città, avevo affrontato gli incarichi più gravosi: senso del dovere e lealtà. Verso il mio casato e la mia famiglia.
Amavo viaggiare; amavo lo scorrere  solitario delle mie giornate, in cui l’ozio significava silenzio e solitudine dopo i contatti pubblici legati ai miei compiti. Non desideravo intrusioni; non ambivo a cambiamenti, ne’ tantomeno avevo necessità di elevare il mio rango attraverso parentele.
Ma vidi la villa e la comprai; e poche settimane dopo incontrai la contessina Carlotta Malvezzi. Il giorno in cui lei mi mostrò i suoi schizzi e disegni, vedendone alcuni particolarmente delicati di alberi – pioppi, ciliegi in fiore, robinie… - ebbi la certezza che un altro disegno si stesse componendo e delineando per me. L’albero, la villa, le estati dorate ci stavano aspettando - il bambino, perché no? dopotutto anche il bambino...
Non mi preoccupai, all’inizio, quando lei mi face notare quanto la nostra villa distasse dalla via principale; o come fosse piccola per accogliere più di tre, quattro ospiti per volta. Mi irritò maggiormente il giardiniere, con la sua insistente richiesta di abbattere l’albero perché danneggiato da un fulmine. Cercava di convincermi decantando la simmetria che avrebbe potuto ottenere anche sul fronte d’ingresso, con le aiuole geometriche a fare da ali al viale, punteggiato di essenze perfettamente potate. Io, invece, sognavo un parco “all’inglese” come avevo avuto modo di ammirare durante i miei soggiorni all’estero: asimmetrici, liberi, poetici… Solo il desiderio di non scontentare troppo Carlotta mi costrinse a recedere da questo sogno. Tollerai il fastidioso individuo e le sue cesoie sempre all’opera. Cercai di non farmi irritare dal tempo che Carlotta trascorreva con lui, a me così indigesto, per decidere le migliorie da apportare al parco; in fondo erano momenti per lei felici: studiare i progetti la animava e la prospettiva dei cambiamenti la consolava della temporanea banalità della villa. L’anno successivo, mi diceva con sguardo raggiante, avrebbe avuto un aspetto completamente diverso, sia all’esterno, sia all’interno, grazie anche all’intervento di un architetto, un tappezziere, un decoratore… Ed io lasciavo fare, proprio perché sentivo di doverle qualcosa per la solitudine in cui trascorrevamo le lunghe giornate estive: ciò che per me era una fonte di energia, per lei era, al contrario, una prova che richiedeva pazienza e sforzo.
La nostra prima estate passò così: io assaporai ogni singolo giorno, senza alcuna fretta che tornasse l’autunno; lei divenne sempre più malinconica e stanca, come se la villeggiatura l’avesse sfinita. Incolpai l’avvicinarsi del mio prossimo viaggio e dei mesi di lontananza che ci aspettavano.
Prendemmo congedo dalla villa; ebbi un ultima discussione col giardiniere, a proposito dell’albero. Di quell’ultimo scambio di battute, mi colpì lo sguardo di Carlotta, che rimbalzava dal mio volto a quello dell’uomo, per poi velarsi di cosa?... rassegnazione, insofferenza, o forse vergogna… non riuscii a decifrarlo, ma incolpai me stesso per il misero spettacolo che stavo dando. E partimmo. Un’altra immagine conservo di quella mattina: il capo di Carlotta voltato a guardare il paesaggio, la curva della guancia increspata in un lievissimo sorriso pensoso, il raggio di sole che vi si posa, facendo brillare il pulviscolo nell’aria. E le mani, leggere, inquiete, indecise se rimanere posate una sull’altra, o aprirsi in un ventaglio sul segreto che stupiva entrambi.
All’improvviso l’andatura ritmica della carrozza si interruppe in uno schiocco violento; un pericoloso inclinarsi ci fece sussultare, facendo gridare Carlotta per lo spavento. Il cocchiere, in un attimo di distrazione, non aveva saputo evitare un profondo solco lasciato nel terreno molle di pioggia da un carro più pesante; una delle nostre ruote si era spezzata. Feci scendere Carlotta, premurandomi che fosse sistemata a bordo strada, fuori da eventuali altri pericoli e mi accinsi ad aiutare il nostro cocchiere, mentre mandava il suo garzone a cercare aiuto.
Successe tutto in un attimo: tentando di spronare i cavalli perché si sforzassero di disimpegnare le ruote dal fango, si imbizzarrirono… o forse non seppi controllare le briglie che il cocchiere mi aveva affidato… ricordo solo il nitrito furioso che precedette l’impennarsi dell’animale. E gli zoccoli che mulinavano davanti al mio volto. So che caddi; ricordo il sapore metallico di sangue e terra in bocca, mi riportarono alla villa, perché ho visto le foglie frementi del mio albero. Poi un accorrere frenetico. Persone. Voci. Lacrime. Pareti bianche e luce che aumenta e sfuma; per lunghi giorni ho percepito questo ritmo di ombre. Neve, e giorni grigi e umidi. In questo lungo torpore, a volte, sogno di muovermi tra le stanza della villa, osservando i servitori; aspetto, paziente, di guarire, di riprendere le forze, per potere riabbracciare Carlotta, per potere abbracciare il bambino. Ne ho sentito il pianto; è di nuovo estate, lo avverto dai profumi intensi di fieno tagliato, papaveri, e tigli. Ho dormito così a lungo? Non sento più vagiti, ma il ciangottio di un piccolo essere che impara a parlare; la malattia, forse, mi fa confondere mesi e giorni. Annebbia la mia mente, da troppo tempo assopita. Oggi, però, non mi sembra di sognare…
Vago per le stanze; le finestre sono spalancate, per fare entrare quanta più aria, e luce possibile; le decorazioni, ultimate, sono davvero belle, Carlotta aveva ragione. I tendaggi hanno colori tenui, luminosi; il parco ha preso la forma simmetrica e ordinata che tanto vagheggiava il giardiniere. Mi avvicino alla loggia principale e il respiro si ferma: eccola la mia visione di nuvole e sole… un bellissimo bambino dai capelli bruni è in braccio a Carlotta. Non leggono un libro, ridono sulle parole di una filastrocca. Non mi hanno sentito arrivare, non voglio spaventarli. Allungo una mano, così sottile e bianca, troppo diafana per potersi poggiare… * Non riesco a toccare la piccola testa ricciuta. Un refolo di vento agita i capelli, i nastri delle vesti, mi spinge ad andare oltre; potrei quasi toccare le foglie lucenti del mio albero – dopotutto lo hanno risparmiato… Madre e bambino si alzano, si sporgono dalla balaustra; vedo, mentre mi allontano, la piccola testa girarsi di scatto al suono di una canzone fischiettata, seguire il padre che, come sempre armato di cesoie, rifinisce le siepi della villa…