mercoledì 30 dicembre 2020

Nessuno tocchi Telemaco

 


Posso dire tranquillamente di avere letto questo libro (Il complesso di Telemaco, Massimo Recalcati, Feltrinelli Editore, 2013) sicura di trovarci storture e una lettura superficiale dell'Odissea.
Tutto è nato dal fatto, capisco ora, che leggendo i giornali – e le vicende politiche di questi anni – ho sempre sentito associato il nome di Telemaco, nella lettura data da Recalcati, a un personaggio che, a mio vedere non ha nulla a che fare con il figlio di Ulisse. E non agisce e non ha gli ideali del figlio che attende che la sua “eredità” ritorni dal mare, per farla propria e portarla avanti. Quindi avevo incolpato di questo travisamento, per riflesso, l'autore del saggio.

Questo è il primo libro di Massimo Recalcati che leggo e, dopo averlo sentito parlare in televisione, capisco perchè sia un autore molto amato. Psicanalista lacaniano (nessuna sapienza, basta un giro veloce in rete per acculturarsi su ciò) ha un rapporto speciale e musicale con le parole, cura e rimedio, creatrici di senso e di vita.
“... essendo l'umano un essere di linguaggio, essendo, la sua casa, la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola... la vita si umanizza e si differenzia da quella animale attraverso la sua esposizione al linguaggio e all'atto di parola” (pag. 30).
Gli piacciono, le parole, e gli piace ascoltarsi mentre le pronuncia, le scrive, esplorando assonanze e consonanze che aiutano a ribadire i concetti. Un'idea – sia in televisione sia sulla pagina - viene espressa, variata, ripresa, in un lento moto avvolgente.

L'effetto seduttivo è innegabile – e in televisione è percepibile in modo evidente, assecondato anche dalla platea, sempre stranamente (?) a predominanza femminile.
Ma torniamo a Telemaco: nel libro diventa l'immagine di un nuovo rapporto tra padri e figli, là dove la figura del padre, insegna Lacan (e Recalcati, of course), sta evaporando, lasciando una
generazione di figli che attendono il ritorno di colui che porterà la giusta legge, facendo di Telemaco l'erede per eccellenza.
A questi manca il padre, ma Ulisse è sempre presente nei suoi pensieri, il ricordo è vivo, nonostante sia partito quando il figlio era piccolissimo. La madre – col suo comportamento e il suo “parlare” il padre – mantiene vivo il ricordo di Ulisse e, con le sue parole, ne fa un punto di riferimento: lontano, assente, forse morto, ma potente. Al punto che Telemaco, prima di rassegnarsi, parte alla sua ricerca; o almeno alla ricerca di notizie certe, che permettano, poi, di farsi erede nel giusto modo.
Non so bene se, in ambito psicanalitico, questa teoria sia stata accettata, cioè considerata valida secondo i canoni della disciplina; io, da prof. di lettere, che ero convinta di leggere una maldestra strumentalizazione di un'opera, magari letta solo parzialmente, devo riconoscere che tutto tiene. I vari punti della teoria poggiano su una lettura amorevole e rispettosa dell'Odissea.

E per un autore che si autocita una pagina sì e una no, devo dire che è ammirevole.
Ne consegue che il noto politico che, a suo tempo, si inserì d'ufficio nella generazione-Telemaco, probabilmente reduce non tanto dallo studio dell'Odissea, quanto di questo testo di Recalcati, non ha letto attentamente il libro.
Io ho il sospetto che sia stato preso solo ciò che interessava; per non dire – cosa che sospetto ancora più fortemente – il libro non è stato letto per intero. Se no si sarebbe arrivati a questo passo:

“Telemaco esige giustizia “adesso”!... Non invoca una Legge astratta, ma una giustizia che protegga la sua casa... E' alla ricerca del senso della legge della Parola. I Proci hanno calpestato questa Legge.
Nell'Odissea il mondo dell'adolescente è rappresentato, al tempo stesso, da Telemaco e dai Proci. Questi ultimi sono, infatti, coetanei di Telemaco, giovani principi come lo è lui stesso. Ma la loro giovinezza calpesta la legge del padre, umilia la sua gente, dichiara Ulisse morto, togliendogli in questo modo ogni forma di rispetto. La rottamazione del padre procede violentemente...

I Proci... calpestano la Legge non scritta dell'ospitalità che nel mondo greco è l'incarnazione più profonda della Legge della parola. Essi vogliono che la regina sposi uno di loro per prendere il posto di Ulisse e impedire che Telemaco erediti il regno del padre. Non riconoscono la Legge che limita il godimento.” (pag. 115-116).
L'autore non ha preso le distanze dalla appropriazione (a mio avviso indebita), perlomeno non mi risulta, anzi. Diversamente avrebbe perlomeno abbozzato un “Complesso di Antinoo”.


domenica 13 dicembre 2020

Viaggio a occhi chiusi

Quando giro l'angolo della mia strada, negli occhi si fondono sempre due immagini: la strada di oggi e quella in cui sono cresciuta, con la folla dei volti di chi ci ha abitato e adesso non c'è più.

Nella mia memoria portoni e gradini hanno ancora tutti i loro abitanti; mi tornano in mente come piccole instantanee, fatte di chiacchiere e impressioni di bambina, raccolte nei pomeriggi passati a giocare con le altre bambine del Palesi.

Il gioco preferito del nostro piccolo gruppo era lanciarsi con la bicicletta lungo la discesa di asfalto – allora sembrava così pericolosa! - che dall'ultima arcata del porticato del castello scendeva sulla piazza. In velocità dovevamo evitare le auto parcheggiate al centro dello spiazzo – ho imparato, con prudenza, a parcheggiare lì, appena presa la patente.

Con le nostre bici e l'ordine di non allontanarci, giravamo lungo un percorso circolare.

Prima nella piazzetta, ma lontano dalla porta del “Club”, posto misterioso, a metà tra un covo di gangster e una bettola da pirati. Mia nonna è sempre rimasta nel vago sul perchè fosse da evitare e su cosa ci si facesse. E io mi feci l'idea che, oltre a bere, ci si giocasse d'azzardo e si tenessero loschi traffici. Ho solo una fugace immagine, che non so se vera o costruita dalla mia immaginazione: la porta si apre mentre ne esce un signore e io intravedo un bancone, silouhette di uomini in mezzo a luce fioca e una nuvola di fumo in cui tutto si confonde.

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Dalla piazzetta, poi, ci fiondavamo verso via Castelvecchio, schivavamo chi giocava a pallone: si doveva stare attenti a non lanciarlo nel giardino della villa Leoni. Che poi i Leoni non c'erano più – se ne stavano a Bologna, mi raccontavano – e io immaginavo il bellissimo palazzo di città in cui abitavano: pavimenti di marmo a losanghe bianche e nere, voltoni e alti soffitti. Vignola, diventata un paesino lontano che avevano dimenticato; così ci pensava l'Armida, la custode, a rilanciarti la palla. E intanto, con il naso tra le grate del cancello, aspettando, noi spiavamo il fantastico giardino con le palme, che d'inverno venivano fasciate di paglia.

Girando attorno alle case, dovevamo stare attente a non passare in mezzo alle nonne sedute a chiacchierare sulle loro seggiole impagliate, alcune di queste così vecchie, che erano state accorciate, perchè le “gambe” erano ormai smangiate dai tarli e allora si era tolta la parte ormai corrosa.

Ricordo ancora la Rina, le sue gambe magrissime sotto le sottane a fiorellini.

D'inverno partiva sul suo motorino verde acqua, mettendo fogli di giornale sotto il cappotto, dopo essersi legata il fazzoletto stretto sotto il mento.

D'estate aveva l'abitudine di farsi vento col grembiule, muovendolo su e giù: ogni tanto afferrava – per sbaglio? - anche il bordo della gonna, con grande disappunto di mia nonna.

Poi c'era la Giovanna, che sempre aveva qualcosa di più grande, più bello, più... la figlia più bella, la nipote più brava, la casa più bella... E solo col tempo ho assemblato i mugugni a mezza bocca delle altre, e ricostruito una storia fatta di una figlia rimasta sola, di un matrimonio mancato, una gravidanza indesiderata e un padre scappato quando ormai lo davano tutti per preso.

C'era la Cocca, che tutte tenevano a distanza: senza marito anche lei – e non perchè vedova – donna dal carattere forte e passato chiacchierato – ma ogni tanto mi chiedo se tutte le piccole malignità non fossero invenzioni - non aveva paura di niente, nemmeno di tirare il collo ad una gallina, a mani nude, seduta su uno sgabello in mezzo alla contrada.

Quel giorno noi bambine ci nascondemmo dietro la porta a spiare le sue braccia bianche, decise, i muscoli che si tendevano e l'agonia della povera bestia, che ho sentito nella pancia, come un pugno a ogni stretta.

Dietro l'angolo della contrada, nella casa in fondo alla via chiusa, stava la signorina Isadora, dal nome esotico: sempre elegantissima, i capelli cotonati, insegnava pianoforte. A passettini misurati, la rivedo passare con la borsetta appesa al braccio, i guanti bianchi, gli abiti dalle fantasie optical e lucide scarpe di vernice.

Dirimpetto, la famiglia del colonnello, baffi sale e pepe e cappello ornato di una piuma, salutava sempre educatamente, ma non dava nessuna confidenza.

Non mancavano dispute e rancori nel piccolo mondo della contrada: prima per i gatti. La figlia di Cocca lasciava cibo per i randagi del centro, che avevano imparato dove lei posizionasse piattini e cartocci di cibo. Il fatto che fossero esattamente sotto le finestre della signora L., precisissima e amante dell'ordine e della pulizia, non aiutava la pacifica convivenza.

Col tempo e qualche segnalazione ai vigili, la colonia è stata dispersa, giusto in tempo perchè inziassero le dispute per il parcheggio – abusivo – in zona carico-scarico. Una gara a chi arrivava prima e a chi dovesse spettare il diritto di avere l'auto comoda, sotto le finestre.

Quando giravamo l'angolo per tornare sulla piazza, passavamo davanti alla porta di Clara: aveva capelli rossi, avvitati in fitti ricci; la pelle bianca risaltava in contrasto al rossetto rosso acceso, meticolosamente steso sulle sottilissime labbra. Teneva sempre in braccio il suo barboncino color miele. Indossava abiti attillati, con gonne al ginocchio e non rinunciava alle scarpe col tacco, anche se le sue gambe erano gonfie e malferme.

Clara aveva anche un marito e, a volte, attraverso la “canola”, lo spazio tra le case, che faceva da cassa di risonanza, arrivavano le liti e le urla.

Un giorno, era estate, faceva un gran caldo, sentimmo urla e strepiti e vedemmo Clara, col cagnolino in braccio, uscire dalla porta di casa col viso coperto di sangue. Le donne della contrada fecero in fretta a farci rientrare per poi soccorrerla e aiutarla. Dopo quel giorno, non vedemmo più ne' lei ne' il marito: la casa rimase vuota e mia nonna, e le altre signore, non ci hanno mai voluto raccontare cosa fosse successo davvero.

Noi abbiamo continuato i nostri giri in bicicletta e abbiamo dimenticato di chiedere, fino a oggi, quando vorrei completare i ricordi, ma non è rimasto più nessuno che possa rispondermi.

 

domenica 15 novembre 2020

Le indagini del compagno poeta

Ho un affetto speciale per questo autore che ho scoperto da poco, pochissimo.
"La misteriosa morte della compagna Guan" è la prima indagine della serie in cui si impara a conoscere l'ispettore Chen Cao.

Il giovane ispettore

risolve enigmi aggirandosi per le strade di Shanghai, che vengono descritte nei mille aspetti di questa città: vicoli con palazzi fatiscenti, oppure grandi vie con grattacieli moderni, strade di costruzioni di inizio secolo suddivise in minuscole unità abitative, o quartieri di freddi uffici governativi. Immancabili le tappe in piccoli ristoranti, o sale da tè, che sono il pretesto per farci "assaggiare" gli innumerevoli piatti di una gastronomia variegatissima, di cui noi occidentali, abituati agli adattamenti della cucina "cinese", siamo totalmente all'oscuro.
L'affetto che mi lega a questi gialli ha radici tutte personali e viene dal fatto che leggere le descrizioni di Shanghai, fa affiorare i ricordi del periodo in cui ho abitato in Cina, non lontano dalla grande metropoli, che un po' ho visitato.
E' una sensazione strana quella di leggere un libro e riconoscere strade e luoghi descritti; mi è capitato con i gialli del questurino Sarti Antonio, di Loriano Machiavelli, o quelli di Benedetto Santovito, creato a  quattro mani con Guccini.
Il caso vuole che, appunto, abbia conosciuto un po' di Shanghai, abbia visitato Guangzhou e Shenzen, citate qui.

Ma quello che mi è piaciuto ancora di più, è ritrovare la sottile atmosfera, fatta di rispetto, dissimulazione, cortesie e controfavori, che, mentre vivevo in Cina, ho appena potuto intuire: solo rimanendo molto tempo si può riuscire a comprendere bene un Paese così grande e complesso, con una attualità fatta di modernità, velocità, benessere economico sempre più alla portata di tutti (ad alto costo ambientale e in termini di salute). E capire la temperie culturale e politica di un Paese a partito unico, dove i cittadini  hanno il passaporto e il denaro per viaggiare, ma sono comunque controllati - così come la stampa, internet, i mezzi di comunicazione  - da un sistema fatto di  Segretari di Partito, Censura, Direttive... contro i quali non è indolore muoversi.
In questo scenario, si muove l'ispettore Chen, amante della giustizia, della buona cucina e, non ultima, della poesia. Il compagno ispettore, infatti, è poeta e grande conoscitore di versi, che accompagnano descrizioni, incontri e momenti "poetici" lungo il dipanarsi delle indagini e degli stati d'animo del protagonista, con un pregio non da poco: non prendersi mai troppo sul serio.

E ne lascio una prova.
"Il viaggio per raggiungere il canale Baili si rivelò piuttosto difficoltoso. C'erano poche segnalazioni stradali, una volta passata la zona industriale di Honqiao...Poi il paesaggio divenne più campestre, con profili di colline visibili qua e là, e un solitario ricciolo di fumo bianco che si alzava come una serie di note su uno spartito... A una curva della strada apparve un sentiero serpeggiante e vide una ragazzina che vendeva grandi tazze di tè su un banco di legno. Non aveva più di tredici o quattrodici anni, e sedeva tranquillamente su di uno sgabello basso, con la coda di cavallo fermata da un fiocco, leggendo un libro... A prima vista non sembrava una venditrice ambulante, una che stesse lì per guadagnare soldi, ma solo una bimba del villaggio, ancora giovane e innocente, che leggeva stagliandosi sull'idilliaco fondale, con una raccolta di poesie tra le mani, prestando conforto all'eventuale passante assetato.
Piccole cose, ma sembravano concorrere a ricostruire un'immagine che (l'ispettore capo Chen) aveva incontrato una volta in alcuni scritti della dinastia Tang e Song:


 -Slanciata e flessuosa, è appena
tredicenne o poco più, la cima
di un bocciolo di cardamomo, ai
primi di Marzo..
.-

<<Scusa>>  disse fermando la motocicletta sul ciglio della strada, 

<<sai dov'è il canale Baili?>>

<<Sempre dritto...>>

Chiese anche una grande tazza di tè...

<<Cosa stai leggendo?>>

<<Visual Basic>>".

 

QIU XIAOLONG, La misteriosa morte della compagna Guan, Le inchieste dell'ispettore Chen vol. 1, Fetrinelli, 2011, pag. 42

 

domenica 25 ottobre 2020

SOS. Uomo in mare

Dopo aver letto alcune altre cose di DFW, dopo aver imparato a riconoscere la sua voce e a seguirlo, senza farmi venire il fiatone, nelle maratone di note a piè di pagina, dopo aver già ricopiato pagine e pagine di citazioni, non sono riuscita liberare l'ancora e a salpare con lui per questa crociera.

 


Mentre leggevo “Una cosa divertente che non farò mai più” ho aspettato per tutte e 151 le pagine di sentire – come lo chiama lui – il click che le sue elucubrazioni argute e agrodolci sanno sempre far scattare... Niente. Forse un pallido barlume, ma niente di che.

E leggere le recensioni entusiastiche del retro di copertina, secondo cui questo sarebbe il testo che ha fatto conoscere l'autore al grande pubblico italiano, mi ha fatto pensare che è come quando un inesperto di cucina emiliana va in visibilio per i tortellini Barilla – se non hai mai assaggiato quelli della nonna, anche un pallido surrogato ti sembra un capolavoro.

Non sono in discussione la bravura stilistica, l'intelligenza o la graffiante ironia con cui sa descrivere nei minimi particolari passeggeri, nave ed equipaggio con annessi rituali e obbrobri di gran lusso, in un vortice di kitsch in costante escalation fino alla cena formale del giovedì – che per inciso è il colpo di grazia per DFW, tanto che dopo uscirà dalla sua cabina solo per scendere finalmente a terra. No, su questa bravura non si discute. E allora, cosa c'è che non va? Mi chiedevo.

Poi ho capito l'origine del fastidio riguardo le recensioni che mi sembravano superficiali e il senso di malessere serpeggiante: per tutta la durata del libro, l'arguzia e la risata che l'autore cerca di strappare, non sono riuscite a nascondere, nella mia testa, la visione di una persona che, mentre prendeva appunti viaggiando su una fantasmagorica nave di lusso, nei momenti migliori si rompeva tremendamente le palle – e credo che questo traspaia - e in quelli peggiori soffriva – letteralmente - augurandosi che la tortura finisse presto.

Forse al grande pubblico di bocca buona può anche sembrare un colpo di genio di puro umorismo presentare una crociera extra-lusso come un'immensa macchina per sconfiggere la morte e la decadenza, e deridere la bovina dabbenaggine di persone mature e, si suppone, mediamente intelligenti, che assecondano l'immenso baraccone galleggiante fatto di entusiasmo, sorrisi smaglianti, divertimento e relax portati fino all'anestesia cerebrale.

Il tragico è che non si tratta di un semplice colpo di genio, o una posa stilistica: è ciò che veramente lui pensava e sentiva con un'angoscia, solo debolmente patinata dal suo sarcasmo.

Del resto credo che il titolo originale sia rivelatore:

A supposedly fun thing...”. In italiano sparisce un avverbio, che renderebbe il titolo più o meno così “Una cosa che SI SUPPONE divertente e che non farò mai più”. E se la massa “suppone”, DFW pensa con la propria testa e nove volte su dieci naviga in direzione contraria.


 

lunedì 21 settembre 2020

Quando i conti non tornano

 

Ogni tanto mi intigno, partendo da una sensazione.


Quando ho visto il film “A Dangerous Method” di David Cronenberg la prima volta, ho avuto l'impressione di tante scene slegate le une dalle altre, abitate da personaggi dalla voce spezzata. Anche la storia d'amore e sesso procede per spot, dal suo nascere alla sua fine; solo per spot si capisce che tra i due ci fu anche una grande intesa intellettuale, fatta di interessi condivisi, di studio e scambio teorico.

Così mi sono messa a leggere e sono arrivata a questo libro, che non si riduce certo al racconto di un transfert sfociato in relazione, come alla fine semplifica il film. E' il racconto complesso e completo della vicenda umana di Sabine Spielrein, che solo per un breve periodo fu amante (e l'autore ha comunque i suoi dubbi che davvero ci sia stato qualcosa di fisico e nemmeno lo considera fondamentale) di C.G.Jung.

Ella fu studiosa acuta e interlocutrice attenta e stimolante, non solo per Jung, ma anche per Freud; membro della Società Psicoanalitica Russa, contribuì alla diffusione della psicanalisi in Russia, studiò musica, creò una scuola speciale per bambini, insegnò psicologia infantile all'università di Mosca, e morì (era ebrea) durante un rastrellamento tedesco a Rostov sul Don, presentandosi volontariamente al comando militare dopo che la sorte l'aveva fatta sfuggire all'arresto.

Carotenuto non nasconde, e non vuole nascondere, la simpatia e l'affetto, potrei dire, per questa donna; le lettere e le pagine di diario riescono a farcela vedere affascinante e vivissima, fragile e, allo stesso tempo, sicura della propria conoscenza in materia psicanalitica, creativa, indagatrice. Il tono dolce e fermo, con il quale Sabine Spielrein parla delle sue ipotesi, delle diverse interpretazioni delle idee di Jung e Freud (indagate nei minimi dettagli), la pone su un piano di parità professionale con colui che è stato suo medico e amico e “poeta”. Anche quando si rivolge a Sigmund Freud, il rispetto non rende mai la sua voce lamentosa o eccessivamente succube e sempre rivedicherà la sua lealtà a Jung, pur non rassegnandosi alla rottura tra questi e il suo maestro/"padre" Freud.

La corrispondenza tra Sabine e Carl Gustav dura anni, anche dopo la fine dell'”amore”, e riempie tutte le lacune che ho sentito nel film. Un merito, però, bisogna riconoscerlo alla pellicola: quello di avermi fatto sentire, come dice Aldo Carotenuto nella sua Introduzione, che “i conti non tornavano”. E di avermi portato fin qui.

mercoledì 29 luglio 2020

M. Maneggiare con cura

https://img.libraccio.it/images/9788858780275_0_170_0_75.jpgLa grafica di copertina rende visivamente l'idea dell'immagine che, durante la lettura del libro, si crea a poco a poco nella mente. 


Monumentale, massivo, manovratore, meschino, macho, miserabile... Lui.

La storia dell'avvento del Fascismo, a grandi linee, la conosco perchè la insegno ai ragazzi delle medie; e devo dire che i testi scolastici, tutto sommato, sono abbastanza precisi, per quanto sintetici.

Leggere questo romanzo mi ha aiutato a cucire tra loro gli avvenimenti, colmando i vuoti che, inevitabilmente, vengono creati dalla sintesi dei libri di scuola.

In questo sono fondamentali soprattutto i brani tratti da documenti storici – articoli di giornale, rapporti di polizia, telegrammi di autorità giudiziarie, stralci di discorsi - che fanno da coro alla narrazione. Il racconto si snoda focalizzandosi, di volta in volta, su vari personaggi. Molti sono collaboratori e fiancheggiatori di Mussolini; il suo braccio destro, gli scagnozzi violenti e truci che trasformano in atto quelle che potevano rimanere solo parole: Italo Balbo, Cesare Rossi, Amerigo Dùmini...

Poi c'è D'Annunzio, con tutta la sua retorica decadente e il sogno tenace e assurdo di risarcire l'Italia della vittoria mutilata con la presa di Fiume e la creazione della Repubblica del Carnaro.

Matteotti, cui Scurati dà una voce più mesta e tenace insieme: l'unico che abbia parlato e criticato e pungolato fino alla fine, fino a scatenare l'estrema violenza, sacrificando la vita personale e familiare alla sua passione per la politica onesta e trasparente. Con Matteotti, forse, si lascia quella imparzialità che l'autore dichiara: sono le parti in cui non si può fare a meno di sentire ammirazione, tristezza, umana compassione, filtrare dal racconto.

E, al centro di tutte queste voci, c'è lui, il figlio del fabbro che dalla miseria delle campagne romagnole, arriva alle stanze del potere.

C'è un grande sforzo di obiettività in questo scrivere e, in effetti, in alcuni punti vengono ricalcate le stesse parole dei documenti attorno ai quali viene costruito il capitolo che si sta leggendo. Le impressioni si formano da sole. La successione, ad esempio, di telegrammi che precedono la marcia su Roma, con contrappunto di articoli di giornale, successione che passa da una smentita quasi ilare di qualsiasi ipotesi di sovversione, per poi arrivare a constatare l'avvenuta presa di controllo dei centri nevralgici, è ridicola e tragica insieme e vale più di mille pagine di saggi storici.

Nonostante l'obiettività, la figura di Mussolini giganteggia, o almeno così è sembrato a me e capisco il rischio che questo libro possa essere molto apprezzato dai nostalgici del fascismo: in negativo, certo, rivelandosi trasformista, calcolatore, astuto e sfrontato, abilissimo con le parole (non per niente scrive sistematicamente articoli di giornale e discorsi che sanno blandire e sferzare al bisogno, infiammare gli animi, promettere e voltare elegatemente gabbana), ma comunque un regista d'eccezionale bravura.

Giganteggia, in negativo, e conferma l'idea che mi sono fatta studiando: sarebbe bello poterlo liquidare come un pazzo che ha condotto l'Italia alla rovina – come frettolosamente qualche mio studente fa - ma un pazzo non ha seguito. Al più viene deriso dal villaggio e lasciato solo ad abbaiare alla luna.

In questo caso, però, l'abbaiare di uno è entrato in risonanza con le voci di molti, ha pescato abilmente nel fondo melmoso di una società, di un momento storico caldissimo e caotico e ha saputo promettere sicurezza, ordine, anche grandezza. E molti, per paura, per desiderio di ordine, per interesse, per convinzione o costrizione, hanno risposto.

venerdì 17 luglio 2020

L'abbazia di re Artù

Quando si inizia la visita a San Galgano, una delle prime informazioni che si leggono sui pannelli espositivi, è la decisa presa di distanza da tutto ciò che ha a che fare con i miti arturiani.

Mi sono sentita un po' presa in castagna, perchè io ho convinto la famiglia tutta, un poco incerta su questa escursione, magnificando la bellezza suggestiva di una cattedrale gotica, che nasconde anche la spada nella roccia: non ne sono pentita, ha funzionato e lo rifarei.

Io, in particolare, desideravo vedere questo luogo per me, ormai, mitico: dopo averlo studiato sui libri, averne viste le fotografie non vedevo l'ora di passeggiare tra le navate aperte sul cielo.

Avevo il batticuore avvicinandomi in auto: il momento in cui l'immagine mentale - e sentimentale – di un posto, va a sovrapporsi al luogo reale, è sempre un azzardo, non sempre vincente.

Alla cattedrale ci si avvicina percorrendo un viale alberato; la mole dell'edificio quel giorno emergeva da una distesa di spighe e fiori di achillea, ombrelli bianchi che creavano come un mare argentato tutt'intorno.


Essendo mattino non troppo inoltrato, l'aria era piena di cinguettii e voli velocissimi di rondini, che tracciavano le loro traiettorie sui campi e rasente i muri.

E' stato come osservare un'immensa nave che si sia arenata in un mare verde e argento. La tentazione di sbirciare all'interno, attraverso la grata che protegge una delle porte delle navate laterali è fortissima, e fa solo venire voglia di entrare al più presto.


E' vero, non ci sono vetrate, giochi di luci colorate, rosoni o pale da ammirare, ma la nudità scoperchiata delle tre navate, dà un significato più completo a quello che si studia sui testi di storia dell'arte. Ti raccontano che il gotico, col suo slancio in altezza – reso possibile dai nuovi accorgimenti che, scaricando i pesi lungo i costoloni, i contrafforti e  le crociere delle volte, resero le pareti meri riempimenti - rappresenta fisicamente lo slancio dell'anima al cielo. Lo sguardo viene portato verso l'alto, così come le preghiere.

Il cielo, a san Galgano, non lo si deve immaginare: si offre allo sguardo ed è il naturale traguardo degli occhi, mentre si percorrono in lungo e in largo le navate. L'azzurro di smalto del cielo sostituisce le vetrate a piombo, di cui non si sente la mancanza. 
Qualche rondine attraversa l'intersezione dei bracci e la croce latina – che l'architettura finita avrebbe ricoperto di volte – qui è disegnata in celeste, attraversata da qualche ciuffo di nuvole: il Cielo non sembra così irraggiungibile e lontano, visto così.

Da una delle finestre laterali si intravede l'eremo di Montesiepi, cioè la vera dimora di San Galgano e della sua spada nella roccia. Si arriva all'eremo camminando lungo un sentiero ombreggiato, che sale il fianco della collinetta e costeggia dei bei vigneti.

Galgano Guidotti, giovane di famiglia nobile, dopo una vita “dissoluta” e dopo aver praticato il mestiere delle armi, fu guidato dal volere dell'arcangelo Michele – che apparve al giovane in diverse occasioni – verso Montesiepi. Fu il cavallo di Galgano a deviare dalla strada e a portarlo nel luogo in cui, a rinuncia della sua vita passata, conficcò la propria spada nella roccia e si consacrò ad una vita di preghiera. La sua fama di eremita e santo di diffuse velocemente – visse in preghiera solo undici  mesi, dopodichè morì di stenti, ma non prima di avere compiuto numerosi miracoli.

Dopo la sua morte (1181), venne eretto l'Eremo, in cui Galgano riposa, e che racchiude la spada nella roccia.

Che è effettivamente conficcata nella roccia; ed è l'unico corrispettivo reale di quanto viene narrato nei cicli bretoni (anche se lì la spada è infissa in un'incudine, che poggia su un masso ed è destinata ad essere estratta).

I rigorosi studiosi di cose ecclesiastiche non vogliono associazioni di sorta con re Artù e compagni, posso capirlo. Ma da appassionata di romanzi cavallereschi e delle avventure dei cavalieri della tavola rotonda, è molto suggestivo pensare che una eco di questa spada abbia viaggiato attraverso i racconti dei cantastorie, e le agiografie diffuse dai monaci, arrivando alle corti di Aquitania e, da qui, a quelle di Inghilterra. Chissà...

Mentre rimugino su queste illazioni, a visita ormai finita, mi cade l'occhio su un ragazzino, entrato nell'eremo con i genitori: se ne sta seduto su una panca e guarda un video sul cellulare, completamente indifferente a quello che ha intorno.

Lo rivedo all'uscita, camminare incerto, con lo guardo fisso sempre allo schermo, e inciampare sui gradini.

Forse ho fatto male a riempire la testa dei miei figli con le storie sull'abbazia, la spada e il cavalier Galgano (o Galvano), ma abbiamo fatto quattro passi in un mondo a metà tra la fiaba, la storia e il divino. Forse c'è il rischio di inciampare, stando a naso all'insù e testa tra le nuvole, ma mi pare decisamente un'alternativa migliore.

domenica 3 maggio 2020

Cose che... sul prima, durante e dopo

10 semplici consigli per risparmiare nella spesa | lecomari
Certe volte penso che si potrebbe idealmente tirare una riga al centro del foglio e scrivere, con bella calligrafia, il titolo di due colonne: Cose che facevo (potevo fare) prima. Cose che faccio/devo fare ora (e probabilmente farò per un bel po' di tempo.).
Quando guardiamo la televisione, o ascoltiamo la radio, non manca mai il messaggio istituzionale che ti ricorda cosa fare per combattere il virus. In casa, i miei figli, la chiamano la propaganda: implacabile, insistente, imposta, uniforme su tutte le reti, pubbliche e private.
Con l'effetto collaterale di spingerti a cambiare canale, come una pubblicità fastidiosa.
La presenza del virus ce l'hanno ben presente, e francamente dopo otto settimane in cui stanno reclusi, hanno capito di doversi lavare le mani o coprirsi la bocca quando starnutiscono; hanno capito di dover stare in casa e di dover usare mascherina e guanti quando escono. Hanno capito che non ci si capisce un granchè e che sarà una lunga convivenza.
Come se poi, nel prima, non avessimo già alcune delle abitudini che sembrano decisive in questo momento. Già, appunto; che abitudini avevo, prima del coronavirus, che adesso sarebbero così deleterie? O anche: cosa è cambiato e che nuove abitudini ho ora?
Mi sono messa a pensarci su e ne è emerso il seguente quadro.

LAVARSI LE MANI. Sorvoliamo sulle regole base: mi lavo sempre le mani prima di mettermi a cucinare, indipendetemente da cosa stessi facendo prima; mi lavo sempre le mani dopo esser stata alla toilette. Mi domando: prima del virus qualcuno passava direttamente dal water allo spritz o ai fornelli? A quanto pare, potrebbe...
In macchina ho sempre una confezione di salviette e quando risalgo dopo aver caricato le borse della spesa del supermercato, mi pulisco le mani, perchè ho toccato di tutto (magari due volte: una per mettere la spesa nel carrello e una seconda alla cassa, anzi tre, per poi mettere la merce nelle borse). Paranoia mia. Da adesso, però, guanti; ma questo non toglie che continuerò a lavarmi.
Tastiera del bancomat: ecco, non ho mai usato i guanti, ma di certo non mi sarebbe mai venuto in mente di mettermi le mani in bocca dopo aver digitato il tastierino.
D'ora in poi, ovviamente, guanti.

BUSTE DELLA SPESA. Non ho l'abitudine di appoggiare le borse che prima sono state nel carrello, poi nel baule della macchina, sul tavolo di cucina o, peggio, sui piani di lavoro. Non mi serve il coronavirus per decidere che sono sporche e non è il caso che entrino in contatto con le superfici su cui mangio o preparo da mangiare, ma gli ultimi servizi al tg, in cui ho ascoltato saggi consigli su come e dove mettere la spesa, mi fanno pensare che finora fosse solo una paranoia mia.

COLPI DI TOSSE, STARNUTI E ANNESSI. Notoriamente, prima del coronavirus, nessuno di noi cercava di schermare naso e bocca quando tossiva; così come nessuno di noi si è sfinito ad insegnare ai propri figli a mettersi una mano davanti alla bocca per tossire. 
Viceversa, non ci siamo mai formalizzati se il nostro interlocutore non si preoccupava di usare un fazzoletto, o non cercava almeno di girarsi di spalle, ma lasciava allegramente partire uno starnuto di fronte a noi. Giusto?
Per fortuna adesso c'è il coronavirus che ripristina un po' di bon ton, e ci costringe ad essere civili.

SCARPE. Altro illuminante servizio tg su come sia deleterio e foriero di possibile contagio non togliersi le scarpe in casa. Anche qui scopro altra paranoia di casa mia.
Senza arrivare alla consuetudine cui ci eravamo assuefatti in Cina – dove nell'ingresso metti a disposizione degli ospiti ciabatte di tela, perchè la prima cosa che si fa, arrivando a casa di qualcuno, sulla soglia, è togliersi le scarpe – da sempre giriamo scalzi o in ciabatte e la calzature stanno nell'ingresso. Solo a me fa senso l'idea di pestare in cucina con le scarpe che hanno solcato le strade?Insomma, il coronavirus sta rivoluzionando le regole dell'igiene casalinga, che erano in declino,a quanto pare.

SPESA AL SUPERMERCATO. Sorvoliamo sulle file all'ingresso, che nessuno di noi ha mai visto e che, credo, ci accompagneranno a lungo.
Così come una novità è la voce, gentile ma risoluta, che invita a non sostare nelle corsie e a far presto, per permettere ad altri di entrare.
Anche qui mi viene in aiuto il mio lato un po' orso: da sempre ho una tecnica per far velocemente la spesa e fare lo slalom velocemente tra le persone (cosa che, adesso, ha la conseguenza di far sì che io non intasi le corsie).
Parcheggio il carrello in un punto strategico, possibilmente fuori dal via vai delle persone, poi carico bracciate di prodotti e li deposito. Solitamente in tre o quattro tappe riesco a spuntare tutte le voci della lista e ad avviarmi alla cassa.
In tempi di necessità, questa tecnica mi aiuta, ma posso garantire che se anche le corsie non le intaso io, è sempre presente un esemplare di una specie che potremmo definire Bradipo casalingo (non importa se di genere maschile o femminile) così riconoscibile: andatura leggermente curva, coi gomiti poggiati alla barra del carrello, occhiale a metà naso per scorrere la lista della spesa, avanza lentissimamente, esattamente in mezzo alla corsia, in modo che non si passi ne' a destra ne' a sinistra, e scorre - a mo' di scanner - tutte le scaffalature, guardando e di qua e di là. Quando ne avvisto uno, l'unica è fare dietro front: nel tempo che impiego a finire la spesa, a malapena sarà arrivato in fondo alla prima corsia.
Insomma, il coronavirus non mi ha reso più tollerante o meno insofferente, ma nessuno è perfetto.


Siamo arrivati, però, alla nota dolente. Se una serie di accorgimenti e abitudini, sono abbastanza facili da adottare stabilmente – tanto in parte vanno a sovrapporsi ad abitudini pregresse o a pregresse manie – il distanziamento sociale è refrattario ad ogni sarcasmo.
E' il rospo più duro da digerire, perchè sono due parole che hanno il potere attrattivo di un buco nero. E come i buchi neri inghiottono tutto ciò che entra nella loro sfera.
Distanziarsi socialmente, dove non è possibile, implica il taglio di tante attività: scuola, lavoro, teatro, cinema, divertimenti, sport, concerti dal vivo... Tutto questo è diventato sinonimo di assembrarsi, perciò, interdetto.
Informatica e tecnologia, in parte suppliscono, ma di fatto viviamo sospesi, in attesa di... ri-prendere, re-incontrarci, ri-partire, ri-cominciare... e qui comincia la lista delle cose che NON facevo nel prima.

SCUOLA: capitolo a parte.

LIBRI: le biblioteche hanno chiuso (anche se manca pochissimo alla ripresa dei servizi di prestito) e ho ceduto al prestito digitale. Solo un'altra volta mi ero piegata all'ebook, perchè materialmente non potevo riempire valigie di libri; in questi due mesi, in cui leggere, ancora di più, era un'attività per me essenziale, ho fatto l'accesso al prestito digitale, anche se odio leggere dagli schermi. Più dell'onor potè il digiuno.

CAMMINARE: stop totale, ne ho già parlato. Gli stop, però, ti aiutano a capire cosa conta, e se una cosa ti manca, credo, allora conta veramente e vale la pena aspettare per tornare a farla (che, poi, a ben pensare, questo ragionamento vale anche per le persone, e la quarantena può essere illuminante). Sono reduce da una specie di camminata virtuale, in cui, sommando i km percorsi dai partecipanti all'iniziativa (ognuno rigorosamente a casa sua) siamo arrivati a 1316 km.
Ho aderito sentendomi un criceto in astinenza da ruota: non possiedo un tapis roulant, un balcone o un giardino e ho totalizzato 6km girando attorno al tavolo di sala (12 passi) e facendo avanti e indietro tra sala e cucina (22 passi). Alla fine, però, la soddisfazione di sentire le gambe pesanti è stata la stessa di quando rientro da una sgambata Vignola-Savignano e ritorno. Anche qui: Più dell'onor, potè il digiuno.

FAMIGLIA, AMICIZIE, INCONTRI IN GENERE: sospesi. I mezzi digitali non mancano e ci sono vari modi di tenersi in contatto.
Anche i nonni, chi più chi meno, si è digitalizzato e con la scusa di portare il pane o la spesa, visto che per fortuna, per ora si difendono, non sono rimasti isolati.
Però... però... questo tempo strano che ha sconvolto i ritmi e le conuetudini, ha un impatto diverso su di loro. Allora si cominciano a intravedere debolezze che avanzano, la fatica di adattarsi, persino il rifiuto di prendere atto della realtà o di sottostare a certe regole. Se anche la quarantena finirà, il tempo corre in avanti e, per i tuoi cari – così come per te – non torna indietro. E, virus o meno, le tappe della vita restano le stesse, anche se nel prima, nelle corse e negli impegni frenetici, potevi dimenticarlo o non pensarci. E questo resterà anche nel dopo, che piaccia o no.
Baci, abbracci, strette di mano... ogni contatto sconsigliato, anche tra familiari, soprattutto se c'è qualcuno che continua a lavorare e a incontrare persone diverse.
E mi sono scoperta, durante un film, o un documentario, a guardare le scene in cui si vedono tante persone – fiere, code per entrare ad una mostra, una stazione dei treni, - e a pensare: “Adesso non si può fare, e chissà per quanto”.
Perchè il cuore del prima e del dopo, per me, è questo: uscire e vedere lo scarto impercettibile di chi sto per incrociare, perchè entrambi, dietro le mascherine, abbiamo calcolato di mettere un po' di distanza tra noi.

sabato 11 aprile 2020

Di freni e camminate

Il lockdown ha significato lo stop delle mie camminate. Oddio, non solo mie, ma di tutti quelli che amano questa attività, assieme a tutti coloro che si muovo all'aperto, come ciclisti, corridori...
Quest'anno camminavo allenandomi per due obiettivi per me impegnativi: il Grande Trekking delle Apuane a Giugno (regalo a me stessa per la fine della scuola) e la Strafrancigena a Settembre (conto in sospeso dall'anno scorso, dopo l'annullamento per maltempo).
Nessuna delle due manifestazioni ci sarà quest'anno; tutto è congelato fino al 2021, quando potrò far valere le due iscrizioni.
Per allontanare la delusione – anche se me lo aspettavo – ho riprenotato l'alloggio, da qui a un anno, per il GT. Così, per provare un misero surrogato di adrenalina, ma molto annacquato dalla lontanza nel tempo.
E anche oggi, dopo la conferma della proroga del lockdown, magari inutilmente, ho aperto Booking, per studiare possibili prenotazioni per l'unica manifestazione che, prevista per fine settembre, non sia ancora stata annullata.
Qualcuno diceva che non si deve riandare al tempo felice, quando si vive un tempo non felice;
può essere pericoloso, oggi diremmo deprimente.
Fra qualche settimana, forse, cambierò idea, ma adesso mi fa piacere ripensare alle camminate che ho fatto, alla scoperta di una attività che mi fa sentire a totale mio agio.
Cominciare a camminare è stato come aprire un cassetto chiuso da tempo e trovarci dentro un oggetto dimenticato. Con una definizione molto meno poetica, camminare è stata un po' la mia “Crisi di mezza età”: riscoprire un interesse e decidere che aveva aspettato abbastanza, senza essere soddifsfatto.
Mi piace pensare che sia stato un riappropriarmi di qualcosa di mio.
So anche quando è cominciata: esattamente nel 2015, il giorno in cui ho scoperto per puro caso dell'esistenza delle maratone (42, 195 km di rigoroso cammino) sulla via Francigena.
Era un pomeriggio di maggio, in cui, al termine di una sessione di correzioni verifiche, avevo spento il cervello e vagavo su Internet. Di link in link sono capitata sul sito della manifestazione... ormai troppo tardi per partecipare a quella edizione, ma in tempo per decidere che avrei partecipato all'edizione 2016: oltretutto cadeva esattamente il giorno del mio compleanno. Più destino di così.
E da lì ho cominciato. Da tapasciona autodidatta; guardata un po' con diffidenza in casa, ma determinata al punto da essere disposta a fare tutto da sola.
Alla vigilia della partenza per Acquapendente, una collega ebbe pietà di me e mi accompagnò, senza partecipare, ma aspettandomi all'arrivo (per paura di schiattare feci solo metà percorso, pentendomi).
Ho un ricordo speciale di quella giornata, perchè ho fatto tutto quanto il percoso con un signore di Milano: io compivo 45 anni, lui 50. Aveva trovato da dormire all'ultimo grazie all'interessamento del sindaco di Acquapendente. Nessuno dei suoi amici si era dato disponibile a seguirlo nell'impresa. Erano mesi che andava al lavoro a piedi, camminando dieci chilometri tutti i giorni e di lì a poco lui e la moglie avrebbero avuto in affidamento un ragazzo.
Così ho scoperto che la voglia di fare cose nuove, non era mia prerogativa e che nel club della mezza età ci sono persone interessanti - e squinternate almeno quanto me.
A distanza di qualche anno, se ancora cammino e programmo, è perchè ho scoperto che i momenti in cui marcio, e faccio salite, e mi concentro solo sul mettere un piede davanti all'altro, mi servono per staccare, per prendere le misure di quello che mi succede, per dare aria al cervello e farlo uscire da giri viziosi di pensieri e rimuginamenti.
Adesso che tutto è fermo, che so che dovrò riprendere il fiato e la resistenza per affrontare le salite, sono contenta di una cosa: non mi sono lasciata fermare da scrupoli o paure. Quello che volevo fare l'ho fatto; alcuni dei sentieri che desideravo percorrere, li ho percorsi.
Non è stato facile nella vita di prima, fatta di scuola, figli, famiglia e impegni vari, incastrare il tempo per allenarsi e ritagliarsi le occasioni per partecipare a uscite e camminate. Sono state scelte e centellinate, ma per questo ancora più apprezzate. A volte hanno creato frizioni; a volte qualche impegno familiare mi ha fatto rinunciare.
Ma queste rinunce non fanno testo; perchè non sono state dettate da paure o sensi di colpa (potenzialmente indotti da quesiti del tipo “Ma … non ho capito, perchè vuoi andare? Fare? Che bisogno c'è?”).
Ecco: ripensare alle camminate passate è bello, perchè le ho fatte. E non ho il rimpianto di essermi frenata, per poi scoprire di aver perso un'occasione. Non ho il rimpianto di aver sprecato tempo.
Il freno è arrivato, e non l'ho scelto e comincio ad avere la sensazione di perdere tempo. “Perdere” non nel senso di buttare, perchè sto cercando di mettere a frutto anche questa quarantena, di fare in modo di imparare qualcosa di nuovo, comunque e nonostante tutto. Molto banalmente – e forse riaffiora la “crisi di mezza età” - perdere nel senso che il tempo di oggi, per me, non sarò quello del prossimo anno. Ho la percezione che non sarà scontato che io riesca semplicemente a tirare fuori dal cassetto l'iscrizione al Grande Trekking sulle Apuane, per poi percorrere 36 km e 1000 m di dislivello.
Me lo dice il ginocchio, che ogni tanto si fa sentire quando faccio ginnastica.
Me lo dicono i muscoli che impiegano più tempo ad allungarsi e si irrigidiscono più velocemente, quando sto ferma. 
Tanti piccoli campanelli... 
Farò finta di non ascoltare.
Chissà se funziona?

domenica 22 marzo 2020

Dittatura o democrazia. E' questo il problema?

Ci sono alcune frasi ricorrenti in queste settimane di epidemia e misure di contenimento:
Siamo in guerra”. “Siamo sotto assedio”.

Sì, nei momenti di sconforto mi sento sotto assedio - guerre e assedi li ho studiati solo sui libri e adesso la sensazione che, da un momento all'altro, le difese possano cadere è molto forte.
Ascoltare il telegiornale, dopo le 18.00, o leggere il resoconto della Protezione Civile è come scorrere un bollettino di guerra: non ci sono nomi, ma i numeri parlano, crescono continuamente.
Le immagini dei veicoli militari che escono da Bergamo, carichi di bare, lasciano senza parole e con un groppo in gola.
Ci sono anche, soprattutto quando si circola sui social, invocazioni al controllo, all'ordine, all'uso dell'esercito, in un'escalation che immancabilmente, porta qualcuno a dire “Certo in Cina ce l'hanno fatta: hanno la dittatura”.
Oppure, viceversa, quando si illustrano i posti di blocco, i controlli, le sanzioni, si insinua che si sia imboccata la china della dittatura, che mina la libertà di circolazione dei cittadini.
Se si segue il ragionamento, allora, l'Italia, in quanto democratica, è destinata a veder fallire tutte queste misure restrittive. In altre parole, noi saremmo strutturalmente incapaci di seguire una regola, perchè democratici?
In democrazia non si riescono ad applicare le regole, dato che ogni provvedimento che limita le libertà sarebbe antidemocratico?
Cosa mi irrita di questo ragionamento? Cosa c'è che mi sfugge e non funziona?
Non riuscivo a capirlo.
Ho visto anche io i numeri dei controlli e delle sanzioni effettuate: il che vuol dire che, per quanto la situazione sia critica, c'è chi non si sente in dovere di rispettare le imposizioni.
Sorpresa: non è che in Cina le regole si rispettino perchè sono una dittatura. Chi pronuncia la frase fatidica lo fa sottintendendo che il Governo ha potuto mettere in atto provvedimenti anche violenti, estremamente lesivi della libertà personale (circolano video di persone letteralmente caricate di peso dalle autorità, dopo essere state sorprese all'aperto, e confinate in campi di quarantena). E noi dovremmo invidiare questo?
I meccanismi che portano a trasgredire i divieti – soprattutto sull'onda del panico – sono gli stessi ovunque; le immagini dei treni parigini, presi d'assalto dopo l'annuncio del lockdown, non sono molto diverse da quelle della stazione di Milano o di altre città del Nord Italia negli ultimi due weekend.
Per spostarsi su un terreno “pacifico”, senza tirare in ballo il Coronavirus: il rispetto della fila non è un optional solo in Italia. Quando vivevo in Cina, avevo imparato a non lasciare mai troppo spazio davanti a me, ad esempio, al supermercato, perchè se no qualcuno si infilava subito. In questo non mi sentivo discriminata come straniera; era un uso comune e il bello era che nessuno litigava o protestava.
Nei musei capitava che i guardiani dovessero riprendere i visitatori, perchè salatavano le transenne messe a regolamentare gli accessi, oppure a protezione di certi manufatti.
Da noi, in Italia, si dice che siamo indisciplinati, o peggio delinquiamo, perchè nessuno controlla e punisce. In Cina c'erano controlli e punizioni, però c'erano lo stesso trasgressori. Quindi?
Io penso che, mettendo da parte i metodi dittatoriali utilizzati, di cui probabilmente non conosceremo mai l'esatta portata – e che francamente non credo siano da invidiare – non consideriamo una caratteristica dei cinesi, che ho percepito molto chiaramente e che deriva loro dalla educazione familiare/governativa (se così vogliamo chiamarla): vengono cresciuti nell'idea che tu debba compiere il proprio dovere, nei confronti della famiglia e dello Stato. Sei un bravo figlio, un bravo lavoratore, un bravo studente, un bravo cittadino e questo reca onore ai tuoi e allo Stato, che tu, così, ricambi per le cure ricevute. Quando penso a cosa può averli sostenuti nella loro battaglia contro il virus, voglio pensare che entri anche questo fattore distintivo.
E noi? Noi che invochiamo la dittatura e consideriamo debole la nostra democrazia, quale è la nostra caratteristica come italiani (a parte la retorica del grande popolo, creativo, artistico etc...)?
Credo che, purtroppo, siamo ignoranti o di memoria corta. D'altra parte, c'è anche rimedio.
Innanzitutto, siamo una democrazia, sì, ma ce lo ricordiamo solo quando dobbiamo invocare i nostri diritti. Giustissimo. Se, però, facciamo uno sforzo di memoria, ricorderemo che questi diritti sono elencati nella Costituzione, che, però, guarda caso, contiene anche i nostri doveri.
La cosa meravigliosa di questo documento è che, nonostante sia stato scritto più di sett'antanni fa, funziona anche in tempi di coronavirus e chi teme il ritorno della dittatura - o al contrario la invoca – dovrebbe rileggersi l'articolo 16:

Ogni cittadino puo` circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanita` o di sicurezza. Nessuna restrizione puo` essere determinata da ragioni politiche”.

Fine. Non è un italiano difficile da capire, ci siamo dentro, tutti, adesso. E lì c'è scritto un DOVERE, poco retorico ma fondamentale in un momento come questo: il DOVERE di rispettare quanto stabilito per motivi di sicurezza e sanità. (Oltre al diritto, da parte dello Stato, di controllare e sanzionare e limitare, nel caso in cui...).
Quando si studiano le guerre mondiali si spiega ai ragazzi cosa sia il fronte interno, cioè la “linea di combattimento” rappresentata dai civili che, con le loro mille mansioni e resistenze, contribuivano alla riuscita della guerra: fabbriche, coltivazioni, rifornimenti, la posta, la sanità, i prestiti, le lettere ai soldati, le calze... Nel frattempo i soldati combattevano in prima linea, o in trincea.
In “trincea”, oggi, ci sono i medici, gli infermieri, i sanitari in genere, le forze dell'ordine, i farmacisti, gli autisti delle ambulanze...
Il cittadino medio come me, come i miei figli, come tutti quelli che se ne stanno chiusi in casa, formano il “fronte interno”, meno d'effetto di un hashtag, più duro da portare avanti.
Ecco cosa non funziona e perchè mi rifiuto di seguire il ragionamento: ci dimentichiamo che la democrazia è a doppio senso. Non possiamo pretendere solo  diritti.
Abbiamo anche dei doveri e chi li ha previsti, aveva la grande certezza che non dovessero più servire i manganelli, perchè tutti si facesse la nostra parte.