venerdì 15 luglio 2022

La verità, in due tempi, su “La verità sul caso Harry Quebert”

 

La verità è che non bisognerebbe mai leggere un libro partendo dal battage pubblicitario che viene fatto sull’autore, soprattutto se viene osannato e incensato; o meglio, io non dovrei farlo.
Non dovrei farlo perché mi prende, sotto sotto, una voglia di trovare difetti: insomma, parto con lo spirito del bastian contrario.
Le prime impressioni sono state, effettivamente, negative e ho scritto di getto, a un terzo del libro, più o meno così:
“Twin Peaks, I peccati di Peyton Place, un po' di Harmony (la parte di storia d'amore è la più noiosa e scontata del romanzo) shakerati insieme (ammazza che zozzeria! al primo "sorso").
Un sapiente intreccio che alterna i periodi storici e fa raccontare la storia dal protagonista che, a sua volta, rende protagonista il migliore amico, recupera un po' la noia iniziale dovuta anche al vago retrogusto di egocentrismo compiaciuto.
Un po' di autoironia sul blocco dello scrittore prodigio, ripetuto specularmente anche su Harry Quebert, ma tutto sommato superfluo. Spero che lo sviluppo dell'intreccio giallo mi faccia cancellare queste prime impressioni.

Insomma, al momento, un buon prodotto commerciale per palati con poche pretese, da mettere sotto l'etichetta - parafrasando - "Una cosa che si suppone divertente/interessante e che non leggerò mai più".
Poi mi sono detta che, per onestà, dovevo arrivare in fondo e poi ripartire da zero. Quindi ripartiamo.
La bravura dello scrittore non è in discussione: punti di vista, salti temporali, dialoghi, registri narrativi diversi – interrogatori, conversazioni, diari, lettere – il romanzo giallo è un completo catalogo di tutti gli strumenti del mestiere che deve padroneggiare un autore.

Ma qui, per me, sta il punto dolente; la bravura tecnica ha fagocitato la trama gialla, che non crea suspense: emerge a fatica all’interno di un intreccio fitto e ricco di dettagli, che alla fine finiscono per uccidere qualunque colpo di scena. Anzi, i colpi di scena che si susseguono alla fine, arrivano a dare il capogiro e un lieve senso di nausea.

Non ho visto la serie tv che è stata tratta da questo romanzo, ma sarei molto curiosa di verificare una impressione: questa storia non decolla, per me, perché racconta troppo ed è assolutamente “visuale”. Tutto viene rappresentato e spiegato e credo che sullo schermo la storia potrebbe rendere tutto quello che non riesce a trasmettere alla lettura.
Parafrasando lo scambio tra Mozart e l’imperatore Giuseppe II: troppe parole, signor Dicker, troppe parole (a rischio di sembrare idiota come l’imperatore).
Non deve essere stato difficile per uno sceneggiatore e un registra tradurre tutto in immagini, perché ogni scena, ogni incontro tra i personaggi, ogni singolo particolare, si traducono in minute descrizioni e spiegazioni, che azzerano l’evocazione e ti guidano passo passo alla soluzione finale.
Più che sentirmi catturata dalla trama, sono arrivata in fondo per forza di volontà, e con lo stesso spirito dei bambini che, in auto, durante un viaggio lungo e noioso, ogni due minuti chiedono “Quanto manca?”.

domenica 17 aprile 2022

La libertà è (una) pazzia


 

Questa volta il giro per arrivare al romanzo è stato più contorto ed è partito dalla musica, dalla colonna sonora del film, per intenderci.

Ascoltata la musica, composta da un cantante che amo molto – Asaf Avidan – ho guardato per curiosità il film, scoprendo che si trattava della trasposizione cinematografica di un romanzo, oltretutto caso letterario in Francia, grande successo blablabla…

Non sono un lettore che segue le novità, resto sempre molto indietro le ultime uscite, i premi letterari, le recensioni … quindi non sapevo nulla di questa scrittrice esordiente francese.

La storia è affascinante, tutta al femminile, ambientata nel luogo più castrante che si possa immaginare: un ospedale per alienate, che una volta all’anno apre i battenti ai curiosi borghesi, organizzando un ballo.

Il ballo delle folli, appunto.

Attorno a  questa occasione si catalizzano e amalgamano le ambizioni del medico che dirige la clinica – quasi una star negli ambienti specialistici – che così può mostrare i suoi successi; si raggrumano i sogni, le ansie e le aspettative delle alienate, che dirigono i loro pensieri su costumi, preparativi e attese – non si sa se più benefiche o destabilizzanti; si concentrano le pruderie delle persone normali, che normalmente dopo aver fatto rinchiudere un parente sarebbero  ben felici di non dovere più pensare alla sua sorte imbarazzante, ma sono galvanizzate dal poter passeggiare dentro uno zoo umano, fatto di donne strambe, a volte sorprendentemente belle, nonostante la loro mente si sia incrinata per una delusione, un lutto, uno stupro, un torto non risarcito…

La protagonista, Eugenie, finisce in questo ospedale, proprio quando sta organizzando la sua fuga per lasciare la casa dei genitori, desiderosa di seguire un progetto di vita in cui il suo dono – parlare con i morti – non dovrebbe più essere nascosto.

Verrà tradita doppiamente da due persone che la amano, ma che per loro natura non possono andare contro il capofamiglia.

In ospedale incontrerà l’altra protagonista: Genevieve, la capo infermiera, che vedrà sgretolarsi a poco a poco la sua ordinatissima e disciplinata vita – unico elemento dissonante in tanta regolarità, la corrispondenza appassionata e sistematica con la sorella morta in giovane età.

Ed è proprio il “fantasma” della sorella di Genevieve, che sarà il veicolo per far evolvere gli eventi in un modo diverso per Eugenie, altrimenti condannata a vivere per sempre chiusa nell’ospedale.

La presenza degli spiriti è, però, solo un velo: questa non è una storia di spiriti, ma  un testo che muove una critica al mondo maschilista e patriarcale che tante donne, in passato, ha costretto a vivere sacrificate, castrate, rinunciando alla propria identità e inclinazioni.

Sotto questo punto di vista il romanzo è appassionato e appassionante; solo, non mi ha convinto la pedissequa esternazione di questo tema, nel senso che ci sono ampi passi in cui, attraverso i ragionamenti dell’uno o l’altro dei personaggi, viene mossa una critica di stampo femminista, che sa quasi di pamphlet, e interrompe il ritmo narrativo.

I punti migliori sono quelli dove sono le azioni stesse, e le scene in cui sono coinvolti i diversi personaggi, che lasciano apparire spontaneamente quel clima di bonaria tolleranza e sufficienza con cui venivano trattate le donne, anche negli ambienti più colti e, proprio per questo, più retrogradi. In questo l’autrice è abile e non avrebbe bisogno dei passi più “didascalici”, come se avesse paura che il suo punto di vista potesse essere non compreso a fondo.

Un esempio di scena riuscita è quella del confronto tra Genevieve, che vive la sua professione con il rigore di un voto e la dignità che le viene da un’esperienza ventennale, e il dottor Charcot, autocompiaciuto e borioso ometto che liquida l’infermiera come l’ultima delle inservienti dopo che lei ha osato esprimere un dubbio sulla diagnosi di Eugenie.

Il film, però, nella sua ansia didascalica ed esplicativa, è addirittura ancora più pesante, al punto che la scena che ho appena descritto, che si svolge con un dialogo già pronto all’uso e perfetto per rendere il colpo che subisce Genevieve, viene addirittura conclusa con uno Charcot che non solo non dice nulla di quello che già lo sceneggiatore aveva a disposizione, e che ricorda a Genevieve, capoinfermiera, di svuotare i pitali delle alienate. Ma questa è un’altra storia, o meglio: un’altra recensione.