venerdì 17 luglio 2020

L'abbazia di re Artù

Quando si inizia la visita a San Galgano, una delle prime informazioni che si leggono sui pannelli espositivi, è la decisa presa di distanza da tutto ciò che ha a che fare con i miti arturiani.

Mi sono sentita un po' presa in castagna, perchè io ho convinto la famiglia tutta, un poco incerta su questa escursione, magnificando la bellezza suggestiva di una cattedrale gotica, che nasconde anche la spada nella roccia: non ne sono pentita, ha funzionato e lo rifarei.

Io, in particolare, desideravo vedere questo luogo per me, ormai, mitico: dopo averlo studiato sui libri, averne viste le fotografie non vedevo l'ora di passeggiare tra le navate aperte sul cielo.

Avevo il batticuore avvicinandomi in auto: il momento in cui l'immagine mentale - e sentimentale – di un posto, va a sovrapporsi al luogo reale, è sempre un azzardo, non sempre vincente.

Alla cattedrale ci si avvicina percorrendo un viale alberato; la mole dell'edificio quel giorno emergeva da una distesa di spighe e fiori di achillea, ombrelli bianchi che creavano come un mare argentato tutt'intorno.


Essendo mattino non troppo inoltrato, l'aria era piena di cinguettii e voli velocissimi di rondini, che tracciavano le loro traiettorie sui campi e rasente i muri.

E' stato come osservare un'immensa nave che si sia arenata in un mare verde e argento. La tentazione di sbirciare all'interno, attraverso la grata che protegge una delle porte delle navate laterali è fortissima, e fa solo venire voglia di entrare al più presto.


E' vero, non ci sono vetrate, giochi di luci colorate, rosoni o pale da ammirare, ma la nudità scoperchiata delle tre navate, dà un significato più completo a quello che si studia sui testi di storia dell'arte. Ti raccontano che il gotico, col suo slancio in altezza – reso possibile dai nuovi accorgimenti che, scaricando i pesi lungo i costoloni, i contrafforti e  le crociere delle volte, resero le pareti meri riempimenti - rappresenta fisicamente lo slancio dell'anima al cielo. Lo sguardo viene portato verso l'alto, così come le preghiere.

Il cielo, a san Galgano, non lo si deve immaginare: si offre allo sguardo ed è il naturale traguardo degli occhi, mentre si percorrono in lungo e in largo le navate. L'azzurro di smalto del cielo sostituisce le vetrate a piombo, di cui non si sente la mancanza. 
Qualche rondine attraversa l'intersezione dei bracci e la croce latina – che l'architettura finita avrebbe ricoperto di volte – qui è disegnata in celeste, attraversata da qualche ciuffo di nuvole: il Cielo non sembra così irraggiungibile e lontano, visto così.

Da una delle finestre laterali si intravede l'eremo di Montesiepi, cioè la vera dimora di San Galgano e della sua spada nella roccia. Si arriva all'eremo camminando lungo un sentiero ombreggiato, che sale il fianco della collinetta e costeggia dei bei vigneti.

Galgano Guidotti, giovane di famiglia nobile, dopo una vita “dissoluta” e dopo aver praticato il mestiere delle armi, fu guidato dal volere dell'arcangelo Michele – che apparve al giovane in diverse occasioni – verso Montesiepi. Fu il cavallo di Galgano a deviare dalla strada e a portarlo nel luogo in cui, a rinuncia della sua vita passata, conficcò la propria spada nella roccia e si consacrò ad una vita di preghiera. La sua fama di eremita e santo di diffuse velocemente – visse in preghiera solo undici  mesi, dopodichè morì di stenti, ma non prima di avere compiuto numerosi miracoli.

Dopo la sua morte (1181), venne eretto l'Eremo, in cui Galgano riposa, e che racchiude la spada nella roccia.

Che è effettivamente conficcata nella roccia; ed è l'unico corrispettivo reale di quanto viene narrato nei cicli bretoni (anche se lì la spada è infissa in un'incudine, che poggia su un masso ed è destinata ad essere estratta).

I rigorosi studiosi di cose ecclesiastiche non vogliono associazioni di sorta con re Artù e compagni, posso capirlo. Ma da appassionata di romanzi cavallereschi e delle avventure dei cavalieri della tavola rotonda, è molto suggestivo pensare che una eco di questa spada abbia viaggiato attraverso i racconti dei cantastorie, e le agiografie diffuse dai monaci, arrivando alle corti di Aquitania e, da qui, a quelle di Inghilterra. Chissà...

Mentre rimugino su queste illazioni, a visita ormai finita, mi cade l'occhio su un ragazzino, entrato nell'eremo con i genitori: se ne sta seduto su una panca e guarda un video sul cellulare, completamente indifferente a quello che ha intorno.

Lo rivedo all'uscita, camminare incerto, con lo guardo fisso sempre allo schermo, e inciampare sui gradini.

Forse ho fatto male a riempire la testa dei miei figli con le storie sull'abbazia, la spada e il cavalier Galgano (o Galvano), ma abbiamo fatto quattro passi in un mondo a metà tra la fiaba, la storia e il divino. Forse c'è il rischio di inciampare, stando a naso all'insù e testa tra le nuvole, ma mi pare decisamente un'alternativa migliore.

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