sabato 22 dicembre 2018

Sogno



Comprare una villa solo perché mi piaceva l’albero che sovrastava i cancelli di ingresso; è questo che ho fatto.
Unica azione d’impulso in una vita altrimenti ordinata, responsabile, razionale.
Quel tronco snello e più volte ricurvo, le foglie verdi che in punta di piedi avvolgevano ogni singolo ramo, per fremere e luccicare contro il cielo azzurro… non so cosa mi prese. Uno strano struggimento; e una visione – sogno o desiderio, chissà… - io seduto all’ombra del loggiato; in lontananza, incorniciate dai rami,  grasse nuvole bianche a ombreggiare i cumuli di fieno lasciati a seccare; un campo giallo di grano; e un bambino, che ascolta la storia da un libro arruffato dalla brezza tiepida…
Così seppi che dovevo comprarla e venire a trascorrervi le mie villeggiature, lontano dalla calura, che d’estate rendeva greve e indisponente la città; il parco era piccolo, ma non mi sfiorò il pensiero che alla mia futura sposa sarebbe mancata la frescura di un fontanazzo, il ristoro dei giochi d’acqua. Ero sicuro che anche lei avrebbe amato quell’albero, e avrebbe trascorso pomeriggi di quiete a ritrarlo con i suoi acquerelli.
Mi ero piegato all’idea del matrimonio, letteralmente, di malavoglia e con lo spirito con cui, nella mia carriera di ambasciatore della città, avevo affrontato gli incarichi più gravosi: senso del dovere e lealtà. Verso il mio casato e la mia famiglia.
Amavo viaggiare; amavo lo scorrere  solitario delle mie giornate, in cui l’ozio significava silenzio e solitudine dopo i contatti pubblici legati ai miei compiti. Non desideravo intrusioni; non ambivo a cambiamenti, ne’ tantomeno avevo necessità di elevare il mio rango attraverso parentele.
Ma vidi la villa e la comprai; e poche settimane dopo incontrai la contessina Carlotta Malvezzi. Il giorno in cui lei mi mostrò i suoi schizzi e disegni, vedendone alcuni particolarmente delicati di alberi – pioppi, ciliegi in fiore, robinie… - ebbi la certezza che un altro disegno si stesse componendo e delineando per me. L’albero, la villa, le estati dorate ci stavano aspettando - il bambino, perché no? dopotutto anche il bambino...
Non mi preoccupai, all’inizio, quando lei mi face notare quanto la nostra villa distasse dalla via principale; o come fosse piccola per accogliere più di tre, quattro ospiti per volta. Mi irritò maggiormente il giardiniere, con la sua insistente richiesta di abbattere l’albero perché danneggiato da un fulmine. Cercava di convincermi decantando la simmetria che avrebbe potuto ottenere anche sul fronte d’ingresso, con le aiuole geometriche a fare da ali al viale, punteggiato di essenze perfettamente potate. Io, invece, sognavo un parco “all’inglese” come avevo avuto modo di ammirare durante i miei soggiorni all’estero: asimmetrici, liberi, poetici… Solo il desiderio di non scontentare troppo Carlotta mi costrinse a recedere da questo sogno. Tollerai il fastidioso individuo e le sue cesoie sempre all’opera. Cercai di non farmi irritare dal tempo che Carlotta trascorreva con lui, a me così indigesto, per decidere le migliorie da apportare al parco; in fondo erano momenti per lei felici: studiare i progetti la animava e la prospettiva dei cambiamenti la consolava della temporanea banalità della villa. L’anno successivo, mi diceva con sguardo raggiante, avrebbe avuto un aspetto completamente diverso, sia all’esterno, sia all’interno, grazie anche all’intervento di un architetto, un tappezziere, un decoratore… Ed io lasciavo fare, proprio perché sentivo di doverle qualcosa per la solitudine in cui trascorrevamo le lunghe giornate estive: ciò che per me era una fonte di energia, per lei era, al contrario, una prova che richiedeva pazienza e sforzo.
La nostra prima estate passò così: io assaporai ogni singolo giorno, senza alcuna fretta che tornasse l’autunno; lei divenne sempre più malinconica e stanca, come se la villeggiatura l’avesse sfinita. Incolpai l’avvicinarsi del mio prossimo viaggio e dei mesi di lontananza che ci aspettavano.
Prendemmo congedo dalla villa; ebbi un ultima discussione col giardiniere, a proposito dell’albero. Di quell’ultimo scambio di battute, mi colpì lo sguardo di Carlotta, che rimbalzava dal mio volto a quello dell’uomo, per poi velarsi di cosa?... rassegnazione, insofferenza, o forse vergogna… non riuscii a decifrarlo, ma incolpai me stesso per il misero spettacolo che stavo dando. E partimmo. Un’altra immagine conservo di quella mattina: il capo di Carlotta voltato a guardare il paesaggio, la curva della guancia increspata in un lievissimo sorriso pensoso, il raggio di sole che vi si posa, facendo brillare il pulviscolo nell’aria. E le mani, leggere, inquiete, indecise se rimanere posate una sull’altra, o aprirsi in un ventaglio sul segreto che stupiva entrambi.
All’improvviso l’andatura ritmica della carrozza si interruppe in uno schiocco violento; un pericoloso inclinarsi ci fece sussultare, facendo gridare Carlotta per lo spavento. Il cocchiere, in un attimo di distrazione, non aveva saputo evitare un profondo solco lasciato nel terreno molle di pioggia da un carro più pesante; una delle nostre ruote si era spezzata. Feci scendere Carlotta, premurandomi che fosse sistemata a bordo strada, fuori da eventuali altri pericoli e mi accinsi ad aiutare il nostro cocchiere, mentre mandava il suo garzone a cercare aiuto.
Successe tutto in un attimo: tentando di spronare i cavalli perché si sforzassero di disimpegnare le ruote dal fango, si imbizzarrirono… o forse non seppi controllare le briglie che il cocchiere mi aveva affidato… ricordo solo il nitrito furioso che precedette l’impennarsi dell’animale. E gli zoccoli che mulinavano davanti al mio volto. So che caddi; ricordo il sapore metallico di sangue e terra in bocca, mi riportarono alla villa, perché ho visto le foglie frementi del mio albero. Poi un accorrere frenetico. Persone. Voci. Lacrime. Pareti bianche e luce che aumenta e sfuma; per lunghi giorni ho percepito questo ritmo di ombre. Neve, e giorni grigi e umidi. In questo lungo torpore, a volte, sogno di muovermi tra le stanza della villa, osservando i servitori; aspetto, paziente, di guarire, di riprendere le forze, per potere riabbracciare Carlotta, per potere abbracciare il bambino. Ne ho sentito il pianto; è di nuovo estate, lo avverto dai profumi intensi di fieno tagliato, papaveri, e tigli. Ho dormito così a lungo? Non sento più vagiti, ma il ciangottio di un piccolo essere che impara a parlare; la malattia, forse, mi fa confondere mesi e giorni. Annebbia la mia mente, da troppo tempo assopita. Oggi, però, non mi sembra di sognare…
Vago per le stanze; le finestre sono spalancate, per fare entrare quanta più aria, e luce possibile; le decorazioni, ultimate, sono davvero belle, Carlotta aveva ragione. I tendaggi hanno colori tenui, luminosi; il parco ha preso la forma simmetrica e ordinata che tanto vagheggiava il giardiniere. Mi avvicino alla loggia principale e il respiro si ferma: eccola la mia visione di nuvole e sole… un bellissimo bambino dai capelli bruni è in braccio a Carlotta. Non leggono un libro, ridono sulle parole di una filastrocca. Non mi hanno sentito arrivare, non voglio spaventarli. Allungo una mano, così sottile e bianca, troppo diafana per potersi poggiare… * Non riesco a toccare la piccola testa ricciuta. Un refolo di vento agita i capelli, i nastri delle vesti, mi spinge ad andare oltre; potrei quasi toccare le foglie lucenti del mio albero – dopotutto lo hanno risparmiato… Madre e bambino si alzano, si sporgono dalla balaustra; vedo, mentre mi allontano, la piccola testa girarsi di scatto al suono di una canzone fischiettata, seguire il padre che, come sempre armato di cesoie, rifinisce le siepi della villa…


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