Vegani
e vegetariani devono tenersi alla larga: lo dico prima perchè
qualche sensibilità non venga urtata. (Anche quelli che insistono a
precisare che “tigelle” è il nome dello stampo e non del cibo,
possono esimersi.)
Per
il resto, il post è un innocuo pippone, generato tra i fumi
dell'impasto delle tigelle, che lievitavano ieri in cucina.
Mentre
lavoravo solerte di mattarello e tagliapasta, pensavo al momento
magico - e terribile - che intercorre tra l'attimo in cui sollevo
il canovaccio sull'impasto e l'attimo in cui stringo la prima
manciata, da lavorare sul tagliere. Andrà bene? La lievitazione è
finita? Le tigelle saranno buone?
Posso
capire a occhi chiusi se tutto è a posto: mi basta ascoltare il
rumore impercettibile delle bollicine d'aria che si rompono sotto il
mattarello. E, ancor prima, è la setosità dell'impasto a
rassicurarmi: non bagnato, anche se devo aggiungere un po' di farina
perchè non si attacchi alla superficie del legno, no: proprio
l'umida setosità, viscosa e ricca che viene dalla parte di strutto
che aggiungo, seguendo ligia la ricetta, è il miglior indizio del
fatto che, ancora una volta, il miracolo della tigella si è compiuto
e saranno leggermente croccanti fuori, una volta cotte.
Abituata
a libri, carta, penna, studio e cervello, mi dimentico che sapere e
saper fare passano attraverso tutti i canali di cui siamo dotati: c'è
una memoria della mente, ma anche una delle mani, del naso, delle
oreccchie (c'è chi ha scritto molto meglio e molto più dottamente
su questo).
Ci
è voluto del tempo, per arrivare a questo punto di consapevolezza e
di “bravura” (diciamo che, mediamente, le tigelle mi vengono bene
e, se fossimo a scuola, potrei prendere un otto?) e ci sono stati
inciampi e goffaggini iniziali. Ho ricevuto una ricetta, che ho
seguito passo passo, tenendola appesa al frigorifero anche quando la
sapevo a memoria. E, nonostante questo, una volta ho dimenticato di
aggiungere il lievito e me ne sono accorta solo dopo un'ora di
“lievitazione”.
Le
ho stese troppo sottili (e sono diventate dure, cuocendo), ma anche
troppo alte (per paura di stenderle di nuovo troppo sottili).
Insistere, sbagliare, riprovare. Riuscire. Non si scappa. C'è una
quota di fatica – che può anche essere sana e soddisfacente –
per ogni traguarado che si raggiunge.
Quando
penso a cosa vorrei che passasse a scuola, ultimamente, penso a
questo. Mi sento circondata dalla paura, dettata dallo sbagliatissimo
convincimento che tutto deve arrivare al volo, subito, altrimenti c'è
un problema; tutto, subito e senza sforzi.
Anzi,
addirittura senza passare per certe tappe considerate ormai
sorpassate e inutili. Come se una ballerina potesse danzare sulle
punte, facendo piroette, senza prima passare per ore interminabili
alla sbarra.
Come
se un pianista potesse, di getto, suonare un Notturno di Chopin,
senza imparare scale e arpeggi - e senza provare e riprovare fino a
quando le sue dita non possono scorrere, automaticamente, sulla
tastiera.
Ho
la sensazione che, anche nel leggere e nello scrivere, nello studio –
diciamola tutta, nella scuola - ci si aspettino gli esiti di un
Nureyev, dimenticando sudore e fatica. Anzi, se dici che le cose sono
difficili, anche noiose, a volte, ma anche le cose noiose servono per
il risultato finale, guai, perchè tutto deve passare attraverso il
piacere. Il fascino. L'amore.
Ma
questa è un'altra riflessione.
Ecco,
tra i fumi del lievito di birra, io vorrei fare di una tigella ben
lievitata una metafora dell'imparare bene: ci vuole pazienza, prove
ed errori, un po' di perseveranza e qualche ciofeca – di cui magari
anche vergognarsi un po' – ma che ti spinga a dire “Adesso ti
faccio vedere io...” e rimboccarsi le maniche per fare un altro
impasto, e un altro, fino a quando le bollicine e lo strutto non si
sposino alla perfezione. Tutto – si fa per dire – qui.
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