Ripensandoci... di nuovo...
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martedì 18 luglio 2023
50 sfumature di romanticismo
lunedì 10 luglio 2023
Guerra, pace e tutto il resto
Più che una lettura, un viaggio: lento, faticoso, concentrato. Con la tentazione, a volte, di fermarsi e lasciare perdere, lo confesso.
Questo è uno di quei libri che ho inziato ad amare mio malgrado, un po' come quando conosci qualcuno che, di primo acchito, ti respinge e non trovi simpatico, ma poi, inspiegabilmente, diventa importante e lascia un segno e diventa un punto di riferimento.
La prima impressione che ho avuto è stata quella di leggere, in forma di germe, Anna Karenina, ma è un'impressione - per quanto giusta sotto certi aspetti - sbagliata. E che non rende giustizia al romanzo.
Nell'ordine temporale, questa storia è il primo capolavoro di Tolstoj; Anna seguirà a distanza di quattro anni. Mentalmente ho cominciato a chiamarlo "la mia bibbia", perchè ormai ne ho sottolineato così tanti passaggi illuminanti, ed è uno di quei libri da tenere a portata, per rileggere, compulsare, confrontare, trovare conforto e conferme.
Dentro c'è tutto: la guerra e la pace, ovviamente,e la figura onnipresente di Napoleone, che incombe con le sue decisioni e sviste sulle vite dei vari personaggi che si incontrano. C'è l'amore, il dubbio, la ricerca della verità, il tradimento, le incertezze, la povertà e l'ipocrisia, l'obbedienza e la ribellione, il peccato e la perdizione, così come il sacrificio e l'abnegazione...
Ogni pensiero, slancio, sofferenza sembra che Tolstoj sia riuscito ad esplorarli, inserendoli dopo le lentissime - ma comunque geniali - pagine di storia e tattica militare, quando la narrazione riprende a seguire i diversi protagonisti, ognuno lungo il suo percorso, in un progressivo assottigliarsi delle presenze, fino a che non rimangono - dopo vicissitudini, morti e separazioni - Pierre e Nataša.
Non ho letto critiche, o recensioni, o saggi, per cui sicuramente scrivo cose già dette, o sbagliate, non so.
Ci sono brani di questo romanzo che sono assolutamente attuali, universali si potrebbe dire: le riflessioni sui giochi di potere, i dissidi tra gli alti comandi, la revisione a posteriori delle vicende belliche per dimostrare la genialità di una parte o, viceversa, la sua incapacità.
La ricerca tutta umana, dolorosamente faticosa e struggente, del senso delle cose, della vita e delle sofferenze che si incontra nelle parole del principe Andrej e, ancora di più nelle elucubrazioni di Pierre Bezuchov (molto simili a quelle di Kostja Levin, in Anna Karenina) è senza tempo: autobiografica e universale allo stesso tempo.
La ricerca dell'amore, il fascino del proibito, le lusinghe ingannevoli, le gelosie, il pentimento e la scoperta del vero amore, che si incontrano nelle figure di Nataša, Marja, Sonja e finanche nella frivola figura di Helene coprono tutto lo spettro dei sentimenti e delle esperienze, dividendosi tra diverse figure.
In Anna Karenina Tolstoj fa una scelta e divide in due personaggi, le differenti esperienze che in Guerra e Pace aveva diviso su più figure femminili: l'impressione è che Marja e Nataša vengano riassorbite in Kitty.
Le due giovani, molto diverse, che inizialmente non si amano ma finiscono per legarsi fortemente l'una all'altra, racchiudono in sè diversi valori: la giovinezza, l'ingenuità, lo slancio dei sentimenti puri che verranno coronati e incastonati in un matrimonio d'amore; lo spirito di sacrificio, la capacità di abbandonare il proprio orgoglio, di perdonare, di ammettere i propri errori...
Un'altra parte di Nataša, quella che la porta sull'orlo del tradimento e della perdizione, verrà assegnata e sviluppata in Anna, che ricomprende anche la figura di Helen Bezuchova (non è forse un caso che muoia suicida).
Di tutti i passaggi che ho sottolineato, per chiudere, sceglierei questo:
"... Pierre aveva imparato non con l'intelletto, ma con tutto l'essere suo, con la sua vita, che l'uomo è creato per la felicità, che la felicità è in lui stesso, nella soddisfazione dei bisogni umani naturali, e che tutto il male proviene non dalla mancanza delle cose, ma dal puro superfluo; ma ora, in quelle ultime tre settimane di marcia, egli aveva imparato anche un'altra verità confortante: aveva imparato che nel mondo non c'è nulla di terribile. Aveva imparato che, come non c'è nessuna situazione nella quale l'uomo possa essere pienamente felice e libero, così non c'è nessuna situazione nella quale debba essere infelice e privo di libertà. Aveva imparato che c'è un limite alla sofferenza e un limite alla libertà e che questo limite è molto prossimo: che l'uomo che soffriva perchè nel suo letto di rose c'era un petalo ripiegato soffriva esattamente come soffriva lui ora addormentandosi sulla terra nuda e umida... ora soltanto Pierre aveva capito tutta la forza di vitalità dell'uomo e la forza salvatrice dello spostamento di attenzione che si trova nell'uomo, simile a una valvola di sicurezza in una caldaia, che fa uscire l'eccesso del vapore appena la sua pressione oltrepassa una data misura...
Quanto più difficile si faceva la sua posizione, quanto più terribile era il futuro, tanto più gli venivano lieti e rasserenanti pensieri, ricordi e immagini, che erano indipendenti dalla situazione nella quale si trovava". GUERRA E PACE, ed. Ebook Einaudi, pag. 1460-62
mercoledì 17 maggio 2023
Corinna (parte 2)
Un altro oggetto mi riporta a te: una splendida camicia ricamata tono su tono, bianca, col colletto a punta della moda fine anni sessanta; aveva le doppie asole sulle maniche, per ospitare i gemelli. Una camicia di mio padre, che mi sono accaparrata da adolescente refrattaria alla moda paninara, e che portavo, con tanto di gemelli smaltati con teste di cavallo, con una giacca di velluto, anche lei di mio padre: lui magrissimo e allampanato, aveva misure che andavano perfette per me, alta e altrettanto magra.
Col tempo ho scoperto che si dice androgina; allora sapevo solo che le mie non erano misure “da femmina” e così mi reinventavo con gli abiti. Mi hanno sempre detto che la mia costituzione “è di famiglia” - pietoso eufemismo, costituzione, per connotare la figura parca di curve femminili.
Guardando le tue immagini, e cucendo insieme qualche altro aneddoto, ho capito che certi miei crucci devono anche essere stati i tuoi. Io, se non altro, ho avuto il fortunato e casuale privilegio di nascere dopo il Sessantotto, di potermi inventare un guardaroba che si adattasse al mio corpo, di potermi concedere stranezze e rigetti nei confronti della moda, cosa che non era possibile a te, ragazza e giovane donna in tempo di autarchia prima e guerra poi.
Ma per tornare alla camicia in questione; faceva parte del corredo da sposo di tuo figlio, acquistato completamente con i tuoi soldi, guadagnati facendo la donna delle pulizie; questo particolare è importante – i tuoi soldi - e ci ho messo un po' a capire perchè.
La prima volta che mi è stato detto, ho pensato alla tenacia, all'orgoglio di una madre che vuole comprare le cose più belle per il figlio. Unico figlio. Le donne di famiglia raccontavano di questo bambino - Paolo - nato prematuro, nel 1942 - tenuto letteralmente nella bambagia perchè non prendesse freddo – in un'epoca in cui questo poteva significare davvero la morte.
E poi un bimbo gracile, tranquillo al punto che poteva stare ore accanto a te e alle zie che cucivano; non ha mai amato la confusione, infatti non è riuscito ad adattarsi alla vita da asilo infantile.
Anche da ragazzo, alle feste, non ballava, ma si occupava dei dischi, in disparte; crescendo gli era venuta un'aria da bel tenebroso – capelli ondulati e scurissimi, sguardo malinconico come il tuo – così non faceva da tappezzeria, semplicemente era l'irraggiungibile e, perciò, il più ammirato. E nelle immagini in cui siete insieme, ti vedo negli occhi uno sguardo innamorato e orgoglioso, mentre lo tieni a braccetto e lui ti sovrasta di tutta la testa e le spalle.
Certo sei stata una donna tenace; buona e tenace; e tuo figlio era una di quelle cose famose per cui avresti fatto di tutto: sacrifici, lavoro, risparmi, se si trattava di te, spese importanti, se fossero state per lui.
Però. Ci ho messo un po' a capire che c'era un però, a ricostruire nella giusta sequenza i fatti a partire dagli aneddoti: non eri vedova, non eri senza marito, ma per gran parte della tua vita di donna sposata sei stata sola... (continua)
venerdì 15 luglio 2022
La verità, in due tempi, su “La verità sul caso Harry Quebert”
La verità è che non bisognerebbe mai leggere un libro partendo dal battage pubblicitario che viene fatto sull’autore, soprattutto se viene osannato e incensato; o meglio, io non dovrei farlo.
Non dovrei farlo perché mi prende, sotto sotto, una voglia di trovare difetti: insomma, parto con lo spirito del bastian contrario.
Le prime impressioni sono state, effettivamente, negative e ho scritto di getto, a un terzo del libro, più o meno così:
“Twin Peaks, I peccati di Peyton Place, un po' di Harmony (la parte di storia d'amore è la più noiosa e scontata del romanzo) shakerati insieme (ammazza che zozzeria! al primo "sorso").
Un sapiente intreccio che alterna i periodi storici e fa raccontare la storia dal protagonista che, a sua volta, rende protagonista il migliore amico, recupera un po' la noia iniziale dovuta anche al vago retrogusto di egocentrismo compiaciuto.
Un po' di autoironia sul blocco dello scrittore prodigio, ripetuto specularmente anche su Harry Quebert, ma tutto sommato superfluo. Spero che lo sviluppo dell'intreccio giallo mi faccia cancellare queste prime impressioni.
Insomma, al momento, un buon prodotto commerciale per palati con poche pretese, da mettere sotto l'etichetta - parafrasando - "Una cosa che si suppone divertente/interessante e che non leggerò mai più".
Poi mi sono detta che, per onestà, dovevo arrivare in fondo e poi ripartire da zero. Quindi ripartiamo.
La bravura dello scrittore non è in discussione: punti di vista, salti temporali, dialoghi, registri narrativi diversi – interrogatori, conversazioni, diari, lettere – il romanzo giallo è un completo catalogo di tutti gli strumenti del mestiere che deve padroneggiare un autore.
Ma qui, per me, sta il punto dolente; la bravura tecnica ha fagocitato la trama gialla, che non crea suspense: emerge a fatica all’interno di un intreccio fitto e ricco di dettagli, che alla fine finiscono per uccidere qualunque colpo di scena. Anzi, i colpi di scena che si susseguono alla fine, arrivano a dare il capogiro e un lieve senso di nausea.
Non ho visto la serie tv che è stata tratta da questo romanzo, ma sarei molto curiosa di verificare una impressione: questa storia non decolla, per me, perché racconta troppo ed è assolutamente “visuale”. Tutto viene rappresentato e spiegato e credo che sullo schermo la storia potrebbe rendere tutto quello che non riesce a trasmettere alla lettura.Parafrasando lo scambio tra Mozart e l’imperatore Giuseppe II: troppe parole, signor Dicker, troppe parole (a rischio di sembrare idiota come l’imperatore).
Non deve essere stato difficile per uno sceneggiatore e un registra tradurre tutto in immagini, perché ogni scena, ogni incontro tra i personaggi, ogni singolo particolare, si traducono in minute descrizioni e spiegazioni, che azzerano l’evocazione e ti guidano passo passo alla soluzione finale.
Più che sentirmi catturata dalla trama, sono arrivata in fondo per forza di volontà, e con lo stesso spirito dei bambini che, in auto, durante un viaggio lungo e noioso, ogni due minuti chiedono “Quanto manca?”.
domenica 17 aprile 2022
La libertà è (una) pazzia
Questa volta il giro per arrivare al romanzo è stato più contorto ed è partito dalla musica, dalla colonna sonora del film, per intenderci.
Ascoltata la musica, composta da un cantante che amo molto – Asaf Avidan – ho guardato per curiosità il film, scoprendo che si trattava della trasposizione cinematografica di un romanzo, oltretutto caso letterario in Francia, grande successo blablabla…
Non sono un lettore che segue le novità, resto sempre molto indietro le ultime uscite, i premi letterari, le recensioni … quindi non sapevo nulla di questa scrittrice esordiente francese.
La storia è affascinante, tutta al femminile, ambientata nel luogo più castrante che si possa immaginare: un ospedale per alienate, che una volta all’anno apre i battenti ai curiosi borghesi, organizzando un ballo.
Il ballo delle folli, appunto.
Attorno a questa occasione si catalizzano e amalgamano le ambizioni del medico che dirige la clinica – quasi una star negli ambienti specialistici – che così può mostrare i suoi successi; si raggrumano i sogni, le ansie e le aspettative delle alienate, che dirigono i loro pensieri su costumi, preparativi e attese – non si sa se più benefiche o destabilizzanti; si concentrano le pruderie delle persone normali, che normalmente dopo aver fatto rinchiudere un parente sarebbero ben felici di non dovere più pensare alla sua sorte imbarazzante, ma sono galvanizzate dal poter passeggiare dentro uno zoo umano, fatto di donne strambe, a volte sorprendentemente belle, nonostante la loro mente si sia incrinata per una delusione, un lutto, uno stupro, un torto non risarcito…
La protagonista, Eugenie, finisce in questo ospedale, proprio quando sta organizzando la sua fuga per lasciare la casa dei genitori, desiderosa di seguire un progetto di vita in cui il suo dono – parlare con i morti – non dovrebbe più essere nascosto.
Verrà tradita doppiamente da due persone che la amano, ma che per loro natura non possono andare contro il capofamiglia.
In ospedale incontrerà l’altra protagonista: Genevieve, la capo infermiera, che vedrà sgretolarsi a poco a poco la sua ordinatissima e disciplinata vita – unico elemento dissonante in tanta regolarità, la corrispondenza appassionata e sistematica con la sorella morta in giovane età.
Ed è proprio il “fantasma” della sorella di Genevieve, che sarà il veicolo per far evolvere gli eventi in un modo diverso per Eugenie, altrimenti condannata a vivere per sempre chiusa nell’ospedale.
La presenza degli spiriti è, però, solo un velo: questa non è una storia di spiriti, ma un testo che muove una critica al mondo maschilista e patriarcale che tante donne, in passato, ha costretto a vivere sacrificate, castrate, rinunciando alla propria identità e inclinazioni.
Sotto questo punto di vista il romanzo è appassionato e appassionante; solo, non mi ha convinto la pedissequa esternazione di questo tema, nel senso che ci sono ampi passi in cui, attraverso i ragionamenti dell’uno o l’altro dei personaggi, viene mossa una critica di stampo femminista, che sa quasi di pamphlet, e interrompe il ritmo narrativo.
I punti migliori sono quelli dove sono le azioni stesse, e le scene in cui sono coinvolti i diversi personaggi, che lasciano apparire spontaneamente quel clima di bonaria tolleranza e sufficienza con cui venivano trattate le donne, anche negli ambienti più colti e, proprio per questo, più retrogradi. In questo l’autrice è abile e non avrebbe bisogno dei passi più “didascalici”, come se avesse paura che il suo punto di vista potesse essere non compreso a fondo.
Un esempio di scena riuscita è quella del confronto tra Genevieve, che vive la sua professione con il rigore di un voto e la dignità che le viene da un’esperienza ventennale, e il dottor Charcot, autocompiaciuto e borioso ometto che liquida l’infermiera come l’ultima delle inservienti dopo che lei ha osato esprimere un dubbio sulla diagnosi di Eugenie.
Il film, però, nella sua ansia didascalica ed esplicativa, è addirittura ancora più pesante, al punto che la scena che ho appena descritto, che si svolge con un dialogo già pronto all’uso e perfetto per rendere il colpo che subisce Genevieve, viene addirittura conclusa con uno Charcot che non solo non dice nulla di quello che già lo sceneggiatore aveva a disposizione, e che ricorda a Genevieve, capoinfermiera, di svuotare i pitali delle alienate. Ma questa è un’altra storia, o meglio: un’altra recensione.