lunedì 2 dicembre 2019

Dello strutto, di Nureyev e dell'imparare bene le cose.

Vegani e vegetariani devono tenersi alla larga: lo dico prima perchè qualche sensibilità non venga urtata. (Anche quelli che insistono a precisare che “tigelle” è il nome dello stampo e non del cibo, possono esimersi.)
Per il resto, il post è un innocuo pippone, generato tra i fumi dell'impasto delle tigelle, che lievitavano ieri in cucina.
Mentre lavoravo solerte di mattarello e tagliapasta, pensavo al momento magico - e terribile - che intercorre tra l'attimo in cui sollevo il canovaccio sull'impasto e l'attimo in cui stringo la prima manciata, da lavorare sul tagliere. Andrà bene? La lievitazione è finita? Le tigelle saranno buone?
Posso capire a occhi chiusi se tutto è a posto: mi basta ascoltare il rumore impercettibile delle bollicine d'aria che si rompono sotto il mattarello. E, ancor prima, è la setosità dell'impasto a rassicurarmi: non bagnato, anche se devo aggiungere un po' di farina perchè non si attacchi alla superficie del legno, no: proprio l'umida setosità, viscosa e ricca che viene dalla parte di strutto che aggiungo, seguendo ligia la ricetta, è il miglior indizio del fatto che, ancora una volta, il miracolo della tigella si è compiuto e saranno leggermente croccanti fuori, una volta cotte.
Abituata a libri, carta, penna, studio e cervello, mi dimentico che sapere e saper fare passano attraverso tutti i canali di cui siamo dotati: c'è una memoria della mente, ma anche una delle mani, del naso, delle oreccchie (c'è chi ha scritto molto meglio e molto più dottamente su questo).
Ci è voluto del tempo, per arrivare a questo punto di consapevolezza e di “bravura” (diciamo che, mediamente, le tigelle mi vengono bene e, se fossimo a scuola, potrei prendere un otto?) e ci sono stati inciampi e goffaggini iniziali. Ho ricevuto una ricetta, che ho seguito passo passo, tenendola appesa al frigorifero anche quando la sapevo a memoria. E, nonostante questo, una volta ho dimenticato di aggiungere il lievito e me ne sono accorta solo dopo un'ora di “lievitazione”.
Le ho stese troppo sottili (e sono diventate dure, cuocendo), ma anche troppo alte (per paura di stenderle di nuovo troppo sottili). Insistere, sbagliare, riprovare. Riuscire. Non si scappa. C'è una quota di fatica – che può anche essere sana e soddisfacente – per ogni traguarado che si raggiunge.
Quando penso a cosa vorrei che passasse a scuola, ultimamente, penso a questo. Mi sento circondata dalla paura, dettata dallo sbagliatissimo convincimento che tutto deve arrivare al volo, subito, altrimenti c'è un problema; tutto, subito e senza sforzi.
Anzi, addirittura senza passare per certe tappe considerate ormai sorpassate e inutili. Come se una ballerina potesse danzare sulle punte, facendo piroette, senza prima passare per ore interminabili alla sbarra.
Come se un pianista potesse, di getto, suonare un Notturno di Chopin, senza imparare scale e arpeggi - e senza provare e riprovare fino a quando le sue dita non possono scorrere, automaticamente, sulla tastiera.
Ho la sensazione che, anche nel leggere e nello scrivere, nello studio – diciamola tutta, nella scuola - ci si aspettino gli esiti di un Nureyev, dimenticando sudore e fatica. Anzi, se dici che le cose sono difficili, anche noiose, a volte, ma anche le cose noiose servono per il risultato finale, guai, perchè tutto deve passare attraverso il piacere. Il fascino. L'amore.
Ma questa è un'altra riflessione.
Ecco, tra i fumi del lievito di birra, io vorrei fare di una tigella ben lievitata una metafora dell'imparare bene: ci vuole pazienza, prove ed errori, un po' di perseveranza e qualche ciofeca – di cui magari anche vergognarsi un po' – ma che ti spinga a dire “Adesso ti faccio vedere io...” e rimboccarsi le maniche per fare un altro impasto, e un altro, fino a quando le bollicine e lo strutto non si sposino alla perfezione. Tutto – si fa per dire – qui.

martedì 26 novembre 2019

Di aragoste e minestroni di letture

"Considera l'aragosta" è il primo libro di David Foster Wallace che leggo e sono rimasta spaesata di fronte alle note lunghissime, a volte quasi capitoletti aggiuntivi rispetto il testo principale.
In alcuni casi ho avuto l'impressione che proprio qui si dicessero le cose più importanti; come
sbirciare dal buco della serratura, su invito dello scrittore, per poter guardare più a fondo, più da vicino.
Anche grazie alle note ho capito perchè, per tutta la lettura, ho sentito come un dolore sordo, amichevole, ma disturbante e minaccioso allo stesso tempo: un cerchio stringente alla testa, rintronata da voci che parlavano tutte assieme.
Almeno in questo libro le numerose domande e risposte e contro-domande e contro-risposte sono la voce caratteristica di DFW; le riflessioni minuziose e lenticolari, sfociano sempre in un dubbio, in una ulteriore domanda, o alla domanda definitiva, di cui sappiamo non ci piacerà la risposta. E, leggendo, non ho potuto fare a meno di sentire altre letture e altre voci.

Non ho studiato a fondo la biografia di DFW e non so se abbia letto Pirandello e Svevo: forse sì, essendo un autore di grande cultura; forse no, non credo siano parte integrante dei piani di studio nelle scuole statunitensi.
Gli sarebbero piaciuti? - mi domando -  O si offenderebbe nell'essere associato a loro?
I passi che mi hanno portato ad avvicinare questi tre improbabili “amici”, sono stati automatici e poco ragionati, e non so se riuscirò a spiegarli e ricostruirli.
I due autori che ho citato riflettono, nei loro scritti, su ciò che intendano per vita, pazzia, salute, in un modo che, per la loro epoca, era nuovissimo e, almeno in Italia, inedito.
Sono io o sono qualcosa di diverso a seconda dello sguardo degli altri? E ancora: sono io ad essere pazzo/malato o sono gli altri che mi vedono così? O meglio: la mia pazzia e la tua salute sono interscambiabili, basta che cambi il punto di vista e io sono sano e tu sei matto. In sottotraccia, quando si leggono questi scrittori, si avverte un sorriso – mesto o sornione a seconda dei casi – che lascia intendere che, pazzo o malato che tu sia, in qualche modo hai raggiunto l'essenza delle cose. E, per converso, si lascia intuire come i “sani” - che sono fondamentalmente coloro che non si pongono domande – in realtà siano vuoti e faciloni.

In Svevo si avverte benissimo nelle parole con cui descrive la “salute” della moglie:
Nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata... Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt’altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti; il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m’adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto. Di domenica essa andava a Messa e io ve l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte. Per lei non c'era... C'erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana... Poi v'erano i medici... Io ne usavo ogni giorno, di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino, quando la malattia mortale mi avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza. 
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia.”.

Porsi le domande, e darsi le risposte, è un punto cruciale in DFW; a volte il vortice dei quesiti può letteralmente paralizzare, come quando si gioca a tennis. E' per questo, probabilmente – secondo DFW - che noi schiappe siamo diversi dai grandi campioni: essi non pensano, ma giocano con un istinto infallibile, isolando qualunque voce interiore, anche nelle situazioni più stressanti, quando si rischia il tutto per tutto.
Oppure le domande possono essere subdole e insistenti, come quando ci si interroga sull'onestà di intenti e autenticità di un candidato alle elezioni presidenziali, col dubbio che di autentico e onesto, in fondo, non ci sia nulla, rischiando di rimanere bloccati al momento del voto. O peggio, lasciando perdere e non votando.

Insomma, non ho potuto fare a meno di sentire la voce di Pirandello, quando dice:
...bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti ad una macchina fotografica. Lei si atteggia. E atteggiarsi è come diventare una statua per un momento. Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire.

Non c'è alternativa: o ci si interroga, e si “muore”; o si vive, e non ci si interroga.
In DFW, allegre e poste con piglio di volta in volta ironico, sarcastico, graffiante, desolato o malinconico, ci sono diverse domande e, in un angolino, la percezione che chi le pone sospetti, o peggio, veda chiaramente, la menzogna, l'imbroglio, o semplicemente la terrena pochezza dell'individuo.
Quando lo scrittore si trova tra attempate signore, che guardano sgomente la cronaca dell'attentato alle torri gemelle, o quando vaga tra gli stand del festival delle aragoste, si avverte potente il senso di estraneità (forse, in qualche momento, di vero e proprio ribrezzo) verso gli esseri umani che ha intorno. Tanto più estranei, perchè nel suo riflettere incessante e acuto e impietoso, DFW sa che sono simili a lui. Solo che mentre gli altri, apparentemente, riescono a sopravvivere all'idea che un'aragosta venga bollita viva, o all'idea che un politico possa mentirti per il proprio tornaconto, si intuisce che lui fa un'enorme fatica, solo a malapena mascherata dall'umorismo, che tanto rende piacevole la lettura.

domenica 7 luglio 2019

Corinna

I ricordi si legano ad alcuni oggetti, attorno ai quali, negli anni, si sono raccolte le storie che compongono la tua vita. 
Non ho potuto sentirle da te: sei scomparsa quando avevo tre anni; mi sono state riportate da altri e l'immagine che mi restituiscono è frammentaria, forse anche inesatta, perchè dove non arrivano i racconti, si è insinuata la mia immaginazione.
Col tempo, poi, crescendo, passando attraverso le stesse esperienze che, in parte, sono state tue – come di tante donne - i figli, la famiglia, un marito, il lavoro... ho cominciato a fare raffronti, a trovare similitudini e differenze, a volte a trarre conforto e insegnamento. Ma forse tu non saresti d'accordo, chissà, o forse su certe storie avresti taciuto, per concentrarti su altre che nessuno mi racconterà.
Il primo oggetto è una fotografia.
Alle spalle uno sfondo carta da zucchero, girata di tre quarti, su un grande cuscino quadrato, bianco, sta seduta una bambina, lei stessa tutta vestita di lana bianca;
 le calzette traforate stringono due gambotte paffute, con le belle pieghe – che i vecchi chiamano “braccialetti”, ma altro non sono che sano grasso infantile - a indicare una bimba in piena salute.
Occhi rotondi verde-marrone guardano l'obiettivo, un po' tristi; i capelli ondulati, castani, fini e morbidi come solo i capelli dei bambini possono essere.
Quei riccioli curvi, pettinati insistentemente – immagino con gesti nervosi - fino all'ultimo, perchè prendessero la giusta voluta, fino a far perdere la pazienza al fotografo che avrebbe detto un “Adesso basta, signora!” molto esasperato – preoccupato che io potessi agitarmi prima ancora di cominciare a scattare.
Così mi è stato raccontato; ci tenevi in modo particolare a quella fotografia, di me piccola; l'avevi voluta assolutamente, curando ogni dettaglio – abito, pettinatura, le scarpette di morbida pelle bianca, impunturate, coi lacci, anche loro accomodati in perfetta simmetria; e poi il fotografo, uno dei più bravi, allora, con uno studio vero, con lo sfondo, le luci, la poltrona di vimini...
Corinna era tanto buona, tanto, ma quando decideva qualcosa – quando teneva a qualcosa o a qualcuno – non sentiva ragioni e andava per la sua strada, mi dicevano: diventavi ostinata e dura.
Così mi raccontavano; ed immagino che tu abbia bellamente ignorato la stizza e l'impazienza del fotografo, per continuare nei tuoi ritocchi fino all'effetto voluto, cristallizzato nello scatto che ho sotto gli occhi: i colori fanno sì che l'immagine non abbia quella perfezione fiabesca e senza tempo dei ritratti di bambini, quelli in bianco e nero, che fanno venire in mente epoche felici e lontanissime, in cui tutto è lindo e ancora intonso. Ancora da avverarsi.
Mi dice, però, l'affetto che nutrivi per me, manifestato con quelle cure minute, d'altri tempi, dedicate a tanti particolari che io, nell'epoca delle foto digitali e dei telefoni, non ho certo speso per le immagini dei miei figli.
Loro avranno tantissimi scatti – sempre che nella corsa che sono le nostre giornate, non ci si dimentichi di salvare i tanti bit stivati nelle varie memorie – di certo naturali, spontanei, numerosissimi; tu hai cercato di creare il momento perfetto, di ritrarre al meglio l'amata nipote, sapendo che quell'istante di infanzia, bianca e stupenda, è un soffio; e catturarlo per sempre val bene far arrabbiare un fotografo, perchè avevi solo uno scatto e non poteva che esser perfetto... (continua)